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Raid «concordati» che non cambiano i rapporti di forza

Raid «concordati» che non cambiano i rapporti di forzaGli aerei americani in partenza dalla base di Cipro – Lapresse

Siria I raid fanno parte dell’ennesima tragica commedia mediorientale che non porterà benefici ai siriani e ai popoli mediorientali. Sono altri che vanno all’incasso. Vedremo adesso se ci saranno nuovi raid ma Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia eviteranno di colpire basi dove sono di stanza le truppe russe. Non si tratta di un’operazione difficile: le basi di Mosca sono concentrate soprattutto, da Nord a Sud, lungo le coste della Siria, quindi è sufficiente tenersi a distanza dalle coste per scongiurare incidenti fatali. Evitare un’«escalation incontrollata» è il primo mantra di Washington

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 15 aprile 2018

Abbiamo il «volto umano» della destabilizzazione. Nella guerra senza fine della Siria siamo di fronte a inutili raid occidentali «concordati» e «clientelari». Concordati perché Mosca era avvertita dell’attacco e degli obiettivi, con esclusione delle basi russe. Clientelari in quanto diretti più che a proteggere i civili, sulla scorta di presunti attacchi chimici del regime di Assad, a soddisfare gli alleati regionali di Usa, Gran Bretagna e Francia: Arabia Saudita, Israele e Turchia. Israeliani e sauditi temono più di Putin – con cui arrivano sempre a un accordo – l’espansione dell’influenza iraniana nella regione. In poche parole se Assad rompesse con Teheran i suoi guai finirebbero: per due volte le monarchie del Golfo, anche di recente, gli hanno offerto soldi per questo.

La Turchia deve mostrare, dopo essere scesa a patti nel recente vertice di Ankara con Mosca e Teheran – due avversari della Nato che insieme agli americani hanno dato via libera al massacro dei curdi di Afrin – che ha un ruolo importante nell’Alleanza Atlantica e può determinare i destini della confinante Siria.
In realtà Erdogan deve giustificare come si sono sgonfiati i suoi sogni di espansione neo-ottomana. Il tutto avviene a mercati chiusi: non bisogna turbare le Borse già in parte depresse dalla guerra commerciale e sui dazi tra Washington e Pechino. Ai mercati di Assad importa poco, sono però assai sensibili alle prove di forza che possono incidere su economia e finanza: guardano al Medio Oriente con un occhio alla Cina che ha in mano i bond Usa e buona parte del debito americano. Che cosa sappiamo dell’attacco in Siria? Non serve ad abbattere il regime di Damasco, lo dicono gli stessi inglesi.

Quindi non porterà ad alcun cambiamento nei rapporti di forza. Sappiamo che i russi sono stati avvertiti, lo hanno dichiarato per primi i francesi smentendo gli americani che poi hanno dovuto correggersi. Del resto se fosse accaduto il contrario i russi avrebbero reagito. È chiaro che la Turchia ha appoggiato con parole enfatiche gli attacchi occidentali ma non sappiamo ancora se ha concesso le basi per i raid, dettaglio fondamentale visto che Erdogan ha accordi con Mosca e con Teheran. Putin è stato da poco in visita in Turchia, ha inaugurato la prima centrale nucleare russa sul Mediterraneo, ha promesso la consegna de missili balistici S-400 e il completamento del gasdotto Turkish Stream: un bottino che il leader turco non vuole mettere in pericolo.

I raid fanno parte dell’ennesima tragica commedia mediorientale che non porterà benefici ai siriani e ai popoli mediorientali. Sono altri che vanno all’incasso. Vedremo adesso se ci saranno nuovi raid ma Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia eviteranno di colpire basi dove sono di stanza le truppe russe. Non si tratta di un’operazione difficile: le basi di Mosca sono concentrate soprattutto, da Nord a Sud, lungo le coste della Siria, quindi è sufficiente tenersi a distanza dalle coste per scongiurare incidenti fatali. Evitare un’«escalation incontrollata» è il primo mantra di Washington, come aveva già affermato giovedì davanti al Congresso lo stesso capo del Pentagono, il ministro della Difesa James Mattis. Ben diverso è capire quali saranno nel prossimo futuro le reazioni di Mosca, dell’Iran e dello stesso Assad. Gli americani hanno schierato oltre duemila soldati nella parte nord-occidentale della Siria e lungo l’asse che collega i territori curdo-siriani a Raqqa, l’ex capitale del Califfato. Se volessero siriani, russi e iraniani potrebbero rendere loro la vita difficile.

Ma anche su questo punto ci sono più interrogativi che certezze. Mosca e Teheran hanno vinto la partita siriana tenendo in sella Assad e quindi calibreranno le loro mosse in base all’obiettivo principale, ovvero mantenere al potere il regime e cominciare la ricostruzione, stimata 400 miliardi di dollari. Sarà comunque interessante capire cosa farà Israele: lo stato ebraico occupa dal 1967 le alture siriane del Golan e nei giorni scorsi aveva bombardato una postazione militare dove c’erano ufficiali iraniani. Lo scopo di Israele è contenere l’influenza regionale dell’Iran e degli Hezbollah libanesi. Mosca aveva già avvertito Israele di tenersi fuori da questi raid decisi dal presidente americano Donald Trump.

L’altro punto fondamentale è il rapporto tra Russia, Iran e Turchia: i russi si sono astenuti dal commentare le operazioni militari turche contro i curdi siriani. Con ogni probabilità ci saranno delle frizioni ma nella sostanza le intese di Mosca con la Turchia, membro storico della Nato, non dovrebbero cambiare. I «clientes» degli occidentali possono dirsi in parte soddisfatti. Israele, il guardiano della regione, dopo la dichiarazione di Trump su Gerusalemme capitale, ha ottenuto ancora il coinvolgimento Usa: soltanto una settimana fa il presidente dichiarava di volersi ritirare immediatamente dalla Siria.

Ma anche i sauditi possono dimostrare di avere un certa influenza a Washington, Londra e Parigi. Macron ha appena venduto 16 miliardi di armi al principe ereditario Mohamed Bin Salman; Londra, fornendo a Riad 48 caccia Eurofighter, ha ottenuto l’impegno saudita per 60 miliardi di scambi commerciali mentre con gli Usa le intese economiche sono così estese da richiedere il pallottoliere. Insomma il principe paga il nostro impegno «umanitario», eccome. I sauditi vorrebbero anche una mano in Yemen dove non riescono a vincere la guerra con gli ribelli sciiti Houthi: anche lì muoiono i bambini sotto le bombe di Riad e 9 milioni sono a rischio carestia. Ma qui l’Occidente dal volto umano gira la testa dall’altra parte.

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