«È un modo per avvicinare musicisti, producer e ascoltatori, ma senza alcun algoritmo o interesse economico. È un modo poi per reclamare uno spazio all’interno di internet, dove le corporation hanno occupato tutto. È come un luogo terzo tra media tradizionali e social: c’è una diretta che viene ascoltata collettivamente, ma i contenuti vengono condivisi dalla comunità».

Coco Maria

COSÌ Yazan Khalili spiega l’idea dietro Radio Alhara, web radio nata tre anni fa in Palestina. Era il momento dei severi lockdown in tutto il mondo, e in quello strano periodo Khalili e alcuni amici, alcuni residenti a Betlemme altri a Ramallah, decidono di dare vita a una «communal radio», ovvero una stazione nata «dal basso» e basata sul desiderio di condividere musica e contenuti. «Ci siamo ispirati ad una web radio di Beirut a cui abbiamo chiesto una mano per imparare a trasmettere, ma anche all’esperienza di Radio Quartiere nata a Milano in quella primavera del 2020 – racconta Khalili, che raggiungiamo in una videochiamata su Zoom – nel sito abbiamo inserito la possibilità di chattare e nei tempi delle chiusure questo ha creato una comunità che ascoltava musica e allo stesso tempo interagiva, diventando quello che indica il nome Alhara: una radio di quartiere. Essere online ha però reso globale la dimensione di questo luogo digitale».

RADIO Alhara è nata quindi in maniera spontanea e dopo tre anni ancora funziona su base volontaria, senza alcun finanziamento. Presto però è diventato un canale per affrontare collettivamente anche questioni politiche di primaria importanza. «Essendo palestinesi la politica è qualcosa che non si può evitare, non ci si può non pensare: riguarda tutta la produzione culturale della Palestina. Non ci vediamo come una radio politica, nel senso di un canale di propaganda, il legame con le questioni sociali è avvenuto per necessità, quando ci siamo posti la domanda su quale fosse la posizione di uno spazio mediatico rispetto alle voci soppresse.

Yazan Khalili
Essendo palestinesi la politica non si può evitare, ci siamo posti la domanda su quale fosse la posizione di uno spazio mediatico rispetto alle voci soppresse Durante il movimento Black Lives Matter e l’uccisione di George Floyd c’è stata una chiamata internazionale per un black out delle trasmissioni. Abbiamo avuto lunghe discussioni tra di noi sulla possibilità o meno di aderire, e alla fine abbiamo convenuto sul fatto che per noi aveva maggior senso parlare dei movimenti black negli Stati Uniti piuttosto che tacere. Abbiamo quindi trasmesso letture di testi, musica afroamericana, abbiamo provato ad impegnarci in un modo che fosse comprensibile per la nostra comunità». Dopo questa prima esperienza ce ne sono state molte altre – per raccogliere

Uno dei luoghi di trasmissione a Betlemme

fondi per Beirut dopo l’esplosione al porto, in solidarietà con le rivolte iraniane, con la Siria e la Turchia per il recente terremoto e naturalmente anche per la situazione in Palestina. «Abbiamo dato vista all’iniziativa Fil MishMish per rispondere al piano di Isreale del 2020 di annettere altre terre della Cisgiordania. Chiaramente non pensiamo di poter liberare la Palestina con la nostra radio, ma vogliamo parlare di questioni non abbastanza rappresentate dai media mainstream. Abbiamo allora chiesto alla nostra comunità di inviare un brano di qualsiasi genere musicale ma sotto l’ombrello del rifiuto di ogni progetto colonialista, in Palestina e altrove. È stata una scoperta: il punto non è tanto il contenuto o il genere della musica ma la struttura in cui viene proposta e ascoltata. Tutto questo ha portato a 72 ore di diretta no stop, una forma di solidarietà da tutto il mondo. Quando nel 2021, con i fatti avvenuti a Sheikh Jarrah sono stati censurati migliaia di account di palestinesi, sentivamo che il discorso si doveva ampliare. Abbiamo allora stretto una collaborazione con numerose web radio per creare quello che abbiamo chiamato Sonic Liberation Front, una programmazione gemella in tutte le emittenti in solidarietà con la Palestina. Ho trovato molto interessante la possibilità di riunirsi orizzontalmente e di sciogliersi quando non è più necessario, anche se i legami creati rimangono».

E MUSICALMENTE, Radio Alhara – vicina al circuito dell’elettronica – come si pone? «Trasmettiamo musica di tutti i tipi, ma diciamo alle persone di mandare brani che ascolterebbero a casa e non in un club. In sostanza non vediamo la radio come una stazione techno e proviamo a evitare i bpm alti. Ci sono stati momenti bellissimi come quando ha trasmesso Nicolas Jaar, ma questi picchi non sono la cosa più importante, che secondo me è invece il supporto di chi continua a contribuire ancora dopo tre anni».
Una peculiarità di questo prezioso progetto è poi il background da cui provengono i fondatori, tra cui Khalili: sono per lo più architetti e designer, vocazione che si coglie anche nelle grafiche di Radio Alhara. «Ciò che c’è in comune tra i nostri ambiti lavorativi e la radio è il costruire piattaforme e infrastrutture che rendono possibile un’esperienza condivisa. I luoghi in cui ritrovarsi sono fondamentali, viviamo in posti diversi ma la radio è diventato uno spazio comunitario aperto a tutti».