C’è una poesia del 1935, Il passeggero, in cui Bertolt Brecht racconta di come il suo insegnante di guida lo invitasse ad accendersi un sigaro durante le lezioni; e di come pretendesse la sua attenzione, mentre, facendolo guidare, gli raccontava delle barzellette. Perché essere troppo concentrati, troppo coinvolti nella guida, mette paura al passeggero. «Da allora quando lavoro / mi guardo bene dallo sprofondarmi troppo in quello che faccio / … / Mi sono disabituato ad andare così forte / da non poter fumare» scrive Brecht, cesellando non solo un’apologia della misura nel vivere, ma anche un’etica della scrittura. Una linea si traccia tra chi guida troppo forte per poter fumare (e scrivere), e chi pensa al passeggero. Ed è una linea spesso disegnata col sangue, verrebbe da concludere leggendo In mezzo ai duri, l’ultimo e il più bello dei testi raccolti in Fatti per bruciare Saggi 2000-2020 di Rachel Kushner (traduzione di Silvia Pareschi, Einaudi, pp. 210, € 20,00).

I «duri» sono l’hard crowd che dà il titolo all’edizione originale del libro, e che provengono da un verso della canzone White Room (1968) dei Cream: «At the party she was kindness in the hard crowd» (alla festa lei era gentilezza in mezzo ai duri). Kushner la sente da ragazzina, girovagando a San Francisco per Haight-Ashbury – il mitologico quartier generale della controcultura dove viveva coi genitori –, «una canzone che crea increspature come un sasso gettato nell’acqua fredda e immobile»: e quell’acqua dura è l’elemento dove galleggiano residuati beat e hippy, mentre Oliver Stone gira The Doors dietro l’angolo di casa e i giovani si vestono di nero e mandano dalle finestre il punk dei Dead Boys per sabotare le riprese. Per le strade e nei locali ci sono eroina e cocaina a volontà, c’è la marijuana avvelenata dal paraquat nei raid delle amministrazioni Carter e Reagan, c’è il machismo degli skater, ci sono giovani prostituti dal volto «spento come una pubblicità», come l’amico di Kushner, Tommy, che finisce fatto a pezzi da un assassino senza nome in un cassonetto a pochi isolati dal bar dove la giovane autrice lavorava. Dov’è la kindness della canzone scritta da Pete Brown in questo party selvaggio, che aspetto assume? Forse proprio quella premura per il passeggero dei versi di Brecht, quel distacco che permette di trasformare la corsa in scrittura.

Il saggio di Kushner nasce dalla visione di un video registrato da un’auto che attraversa San Francisco nel 1966, due anni prima della nascita della scrittrice (forse un «fegatello» sforbiciato dal montaggio di Bullitt). Le immagini diventano il trampolino per la memoria, i paragrafi si susseguono come strade ed edifici, rivelano personaggi che svaniscono oltre il lunotto posteriore: le loro tracce si perdono, spesso, non per qualche scherzo della mente, ma per via dell’incontro con la morte. Sono figure, scrive Kushner, che a causa della filosofia bohémien dei suoi genitori lei ha sempre posto al vertice di una gerarchia, convinta «che la ragione stesse dalla parte di coloro che vivevano intensamente, che si sentivano liberi di distruggersi». Ma poi, a poco a poco, era rimasta l’unica testimone per raccontarle, e la gerarchia si era ridisegnata. Forse, se è andata così, è perché era stata sfiorata dalla kindness, da una tenerezza/debolezza che era anche distacco: «Anche se stavo fuori fino a tardi, anche se mi impegnavo a rimanere fino alla fine, una parte di me se ne andava presto. Diventare scrittrice significa andarsene presto, quale che sia l’ora in cui si arriva a casa». Significa fumare durante la guida, ridere delle barzellette, come nella poesia di Brecht.

Eppure, Kushner è capace di fumare e ridere anche guidando ai duecento all’ora, come si può apprezzare nel primo dei saggi raccolti nel libro, Ragazza in motocicletta. Racconto della gara clandestina Cabo 1000, un attraversamento a rotta di collo della Baja California, da completare in sella a una moto e in una sola giornata, trova la sua ragione non tanto nel feticismo motoristico della preparazione, o nella suspense del rettilineo che segna la caduta di Kushner dalla sua Kawasaki Ninja, ma nella lenta risalita che segue la corsa, un’Anabasi picaresca e postmoderna. La moto incidentata che fatica a tenere il passo della carovana, la distanza che si scava con il compagno meccanico, vanesio ed egoista, le corse nella sabbia di un lago prosciugato, la goffa gentilezza del vincitore della gara, che sarebbe poi morto in un’edizione successiva; e infine le lacrime di sollievo nel motel oltre confine, la gratitudine del ritorno a casa, del distacco, per raccontare. L’ultima pagina del saggio unisce l’immagine di Marianne Faithfull nel finale di Nuda sotto la pelle (1968) – uccisa in un incidente, punita in un rigurgito misogino per le sue corse verso l’amante Delon – al lento sfiorire dell’infatuazione motoristica per Kushner, con l’accudimento di una vecchia Vincent Black Shadow che si protrae nel tempo come rito celebrato insieme al padre che invecchia: non un tramonto, ma la vittoria sulle circostanze brute, sul gorgo che inghiotte l’hard crowd – il trionfo di chi sopravvive per narrare, anche contro il mito della donna sacrificata sull’altare delle passioni.

Non solo in questi saggi, ma almeno in altri due si riverbera la dualità tra chi è «libero di distruggersi» e chi «se ne va presto» dalla festa, perché toccato dalla vocazione della testimonianza: è un asse portante del libro. Nella prima categoria ci sono Johnny Sherrill e Alden Van Buskirk, al centro di Vagabondaggi fuori mano. Amici dei genitori di Kushner e naufraghi dell’esistenza che lo spettatore David Rattray (poeta e autore di una celebre intervista a Ezra Pound realizzata al St Elizabeths Hospital di Washington, dove Pound era internato) manca continuamente, pur amandoli, idealizzandoli, e cantandone le gesta: per lui il mondo rimane un libro «stracolmo di minuscole scritture segrete», per gli altri due è qualcosa che non va interpretato, e che forse nemmeno riconoscono come l’elemento fluido in cui vanno alla deriva.
Della seconda categoria fa invece parte Denis Johnson, scrittore premiato con il National Book Award nel 2007 per Albero di fumo e morto prematuramente nel 2017, a cui Kushner dedica il ritratto Angelo terrestre: e qui la scrittrice è abile a mettere in fuga il mito dello scrittore maledetto, il santino «per scribacchini hipster e lettori tossici di crack», e a sostenere a testa alta come Johnson fosse sopravvissuto alle dipendenze «senza mai averle vissute, in un certo senso, anche se da un punto di vista strettamente biografico era vero il contrario», perché il suo pathos era frutto di vera arte, non il risultato di un’equazione di fatti, debolezze, inclinazioni.

C’è anche molto altro, in questo libro duro e dolce, che fa pensare alle fotografie di Nan Goldin (non a caso scelta per illustrare la copertina dell’ultimo romanzo di Kushner, Mars Room, apparso per Einaudi nel 2019): ci sono ritratti di Marguerite Duras e di Clarice Lispector, c’è un reportage dal campo profughi palestinese di Shuafat, a Gerusalemme Est, c’è il resoconto di una notte in panne su una Chevrolet Impala del ’63, tra Iowa e Nebraska, con l’autrice sopraffatta dalla generosità di un camionista che ribalta la fiaba oscura di Duel: «A volte facciamo delle cose per gli altri. Le facciamo e basta», e non sono cose aggressive. C’è anche molta Italia, che Kushner ha frequentato durante la preparazione del romanzo I lanciafiamme (2013), ambientato negli anni settanta tra la Manhattan dell’arte, una Como altoborghese, capitalista e fascisteggiante e una Roma rivoluzionaria. E c’è soprattutto un omaggio a Nanni Balestrini, rimaneggiamento della prefazione all’edizione inglese di Vogliamo tutto e del necrologio scritto per «Commune». È proprio nella narrativa di Balestrini che Kushner sembra trovare una terza via tra la fuga nella vita e il distacco dell’arte, un romanzo-inchiesta che si allontana dall’introspezione, o dalla decifrazione del mondo-libro, per diventare «un lavoro di rifrazione»: delle voci, della rivolta, della rottura degli incasellamenti, del rifiuto di ogni crudele pietà.