Nel ventennio tra le due guerre, la categoria di esistenza attrae come un magnete intelligenze teoretiche da molte province del pensiero. In Germania, dove incrocia il ritorno fenomenologico alle «cose stesse», impegna fra gli altri Barth, Jaspers, il primo Heidegger; in Francia Gabriel Marcel, Jean Wahl, l’esule russo Lev Šestov. Tutti hanno di mira una rotazione filosofica dalla regione degli a-priori e dei sistemi verso il carattere irripetibile dell’esistenza; tutti si alimentano alla Kierkegaard renaissance e sono stati investiti dagli annunci epocali di Zarathustra.

Prima di diventare esistenzialismo ed esondare nel secondo dopoguerra dalla Francia di Sartre verso le arti e il costume, la filosofia dell’esistenza delimita in particolare una riserva per cacciatori di trascendenza e parla il linguaggio della metafisica.

Guardare il mondo a partire dall’esistenza – cioè da quel modo dell’essere che ne indica il «come» contingente anziché il «che cosa» essenziale – non restringe necessariamente la visione: con le sue soglie impermanenti, l’esistenza offre alla filosofia il regime del possibile e tiene a distanza l’impero del dato.

Rachel Bespaloff  – ebrea, ucraina – è protagonista incomparabile quanto dimenticata di questa riserva. Cresciuta a Ginevra in una famiglia colta – il padre, Daniel Pasmanik, è teorico del sionismo, la madre insegna filosofia – viene orientata agli studi di piano e composizione da uno specialissimo talento musicale. Alla laurea in filosofia e letteratura affianca anche il diploma di «danza ritmica» grazie al quale le viene offerta una docenza all’Opera Garnier. Rachel si installa così nella Parigi libera e vivace del primo dopoguerra e vi trova un’autentica patria intellettuale.

All’Opera, firma quattro coreografie, poi lascia quando le si apre un decennio di svolte capitali: sposa Nassim Bespaloff e ne ha una figlia, conosce, nel 1925,  Lev Šestov che ridesta in lei il demone della filosofia. Nel suo cenacolo di esuli ebrei e filosofi dell’esistenza, Madame Bespaloff conosce Daniel Halevy e Benjamin Fondane, dibatte con Husserl, partecipa alle discussioni e sorprende il suo uditorio.

La scrittura sembra incalzarla solo più tardi, quasi vicaria degli incontri perduti, dopo che nel 1930 ha abbandonato Parigi per seguire la famiglia in campagna e nel 1942, braccata dalle leggi antisemite, ha dovuto lasciare la Francia per il nuovo esilio americano.

Le prime prove scritte cominciano a circolare a sua insaputa, passando immediatamente di mano in mano e aprendole la strada di riviste prestigiose: Bespaloff si rivela una fuoriclasse della scrittura filosofica, tutto quello che tocca risplende.

I suoi saggi nascono per lo più da letture, dall’urgenza di chiarirsele mediante la scrittura o di comunicarle in lunghe lettere agli amici – Wahl, Halevy, Marcel, Fondane, Schiffrin – che talora sollecitano espressamente la sua «lettura d’autore». È il caso del lungo saggio su Essere e tempo di Heidegger – ancora non tradotto in Francia in quel 1932 – la cui lettura le era stata richiesta da Daniel Halevy. L’intera sua produzione assume così anche la forma di un personalissimo epistolario filosofico con una costellazione di autori di gran luce che fa leva su Wahl e arriva fino a Sartre.

Solo da qualche decennio, grazie a edizioni sparse, questa filosofa di prim’ordine, distante per molti versi da altre coeve come Hannah Arendt e Simone Weil, ha cominciato a uscire dalla dimenticanza.

L’editore Castelvecchi, in prima mondiale, avvia ora la pubblicazione delle sue opere complete – edite e inedite, epistolari compresi – con il primo dei quattro volumi previsti: L’eternità nell’istante Gli anni francesi 1932-1942 (a cura di Cristina Guarnieri e Laura Sanò, prefazione di Monique Jutrin, pp. 668, € 30,00).

Lettrice per necessità esistenziale – ogni opera è «un tesoro di incertezze» che offre «la possibilità di non soffocare» –. Bespaloff riserva la scrittura a testi che mettono in scena la muta interiore, dove «la coscienza si toglie la pelle morta dei vecchi concetti, si crea nuovi organi e ne saggia il vigore e l’astuzia».

La lista dei primi autori che affronta – Green, Malraux, Marcel, Kierkegaard, Šestov e Nietzsche – rivela il perno della sua ricerca: tutti mirano, al pari della musica, a «trasformare la virtualità dell’esistenza in oggetti di coscienza senza irrigidirli in concetti». In ogni metafisico di un certo tipo – poeta, filosofo, romanziere – Bespaloff vede «un compositore che si sforza di carpire alla musica il potere di trarre dal caos una libertà e una legge».

Nel disaccordo tra il reale che cercano e la realtà che misurano con lo sguardo, la musica offre loro un rifugio, «li assicura che l’oggetto della loro ricerca esiste, si è già incarnato, possiede un linguaggio». Dispiegando la sostanza sonora nel tempo, la musica «fa apparire il residuo intemporale della combustione delle ore», rivela un reale.

La questione della trascendenza si situa interamente in questo arco di tensione tra realtà e sensibilità che domina la lotta interiore e a cui ogni autore assegna un diverso nome: Volontà di potenza, Ricerca di Dio, Immaginazione poetica, Destino. È una lotta che sfianca: «realtà e sensibilità si creano e si distruggono a vicenda, sono una per l’altra occasione e ostacolo, pretesto e fine». Bespaloff incalza i suoi autori soprattutto quando credono di poterne uscire vittoriosi, ottenendo la quiete al prezzo di una mutilazione. Dopo aver messo a vivo i loro impulsi di pensiero, richiama ciascuno a portarli fino in fondo, senza riguardi: l’infelicità della coscienza non guarisce inseguendo il miraggio dell’innocenza primitiva; tra la nostalgia della fede e la fede resta sempre un abisso; sono votate allo scacco le speculazioni che mirano a sostituire al mistero dell’essere una logica dell’essere. Bespaloff rifiuta di precipitare nel disarmo mistico tanto quanto di evadere dal fondo tragico della vita. Nessuna conciliazione la tenta, così come nessuna posizione la trattiene. Lo sforzo di comprensione esige una continua irruzione contro quanto sembra offrire al reale un definitivo carattere intelligibile. Nel «terribile disgelo» prodotto dal pensiero nietzschiano –  dove «grossi blocchi di assoluto se ne vanno alla deriva» – e sotto la formidabile pressione della storia che prepara la Shoah, l’unico punto fermo sembra infine a Bespaloff la Scrittura e nella Scrittura i profeti. Assieme alla fonte classica, la fonte biblica è quella in cui «abbiamo la nostra patria» e in cui è più evidente la vocazione a ciò che è giusto. La sua rilettura del poema di Omero – (Sull’Iliade, già edito da Adelphi nel 2018, con traduzione di Simona Mambrini, qui riedito con traduzione di Valerio Bernacchi) si qualifica proprio per l’accostamento con la Bibbia. «Questi due libri ci offrono il conforto di cui abbiamo bisogno: il contatto con la verità nel bel mezzo delle nostre lotte, sul piano del concreto».

Ed è forse l’eco di quel «vero» a conferire alla scrittura di Bespaloff il suo inconfondibile timbro poetico.