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Raccomandato ma volontario il lockdown alla catalana

Raccomandato ma volontario il lockdown alla catalanaRamblas a Barcellona – Ap

Catalogna A Barcellona in una settimana 414 nuovi casi. Unico divieto «riunioni di più di 10 persone»

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 18 luglio 2020

La situazione in Catalogna sta sfuggendo di mano e la Generalitat cerca affannosamente di correre ai ripari. Ieri quasi 3 milioni di persone di Barcellona e di 12 altri comuni della zona metropolitana sono state invitate dall’esecutivo locale, in sostanza, a tornare a fare volontariamente un lockdown. Ma, essendo una semplice raccomandazione, non ci sono conseguenze per chi decide di non rimanere a casa e uscire solo per le attività «imprescindibili».

L’UNICO DIVIETO è quello di effettuare riunioni di più di 10 persone. Chiuse discoteche, teatri, cinema, piscine e palestre, ma non musei e biblioteche, né le scuole estive per i bambini. Bar e ristoranti al 50%. Questo «invito» si somma all’analogo fatto ai cittadini di tre quartieri della seconda città catalana, L’Hospitalet de Llobregat (letteralmente attaccata a Barcellona) qualche giorno fa e al blocco della zona del Segrià (attorno al capoluogo Lleida), dove la situazione è ancora più drammatica che a Barcellona.

L’INEFFABILE PORTAVOCE del Govern catalano, Meritxell Budó, la stessa che accusava il governo centrale di Pedro Sánchez di cattiva gestione e che diceva ad aprile che in una Catalogna indipendente «non ci sarebbero stati tanti morti né tanti infettati», ieri faceva la voce grossa dicendo che l’invito fatto ai barcellonesi è «l’ultima opportunità» prima di prendere «misure più drastiche».

Ma il problema è che è sempre più evidente che il l’esecutivo catalano è superato dagli eventi e non è in grado di effettuare in maniera efficace il tracciamento dei contatti: ci sono solo 120 rastreadores (caccia-contatti), quando ce ne vorrebbero dieci volte tanti. In più in Catalogna si è approntata una task force per affrontare l’emergenza solo poche settimane fa, a sei mesi dell’esplosione della pandemia e il ministero della salute catalano ha visto in poche settimane le dimissioni di ben tre alti responsabili.

L’editorialista de La Vanguardia Josep Corbella lo spiegava bene qualche giorno fa: in Catalogna non c’è nessuno che guidi la risposta tecnica, non si è usato il tempo per prepararsi, e il Govern si è rifiutato di accettare gli aiuti che gli sono stati offerti dal governo spagnolo. Anche la sindaca di Barcellona Ada Colau è da giorni che chiude più caccia-contatti, ed era arrivata ad offrirne 50 alla Generalitat, che però «non lo ha visto necessario», spiegava qualche giorno fa. Ieri ha offerto nuovamente aiuto al governo locale, di fronte ai 35 focolai in città, anche se ha insistito che «Barcellona non è confinata». Sulle spiagge, la sindaca ha detto che dovrà coordinarsi con gli altri comuni della costa per decidere un criterio comune.

MA SIA LA SINDACA che la ministra della salute catalana Alba Vergès hanno invitato a «ridurre la vita sociale» in città e limitarsi a incontri nel circolo familiare più stretto. Persino il sindaco di Lleida, di Esquerra republicana come Vergès ha criticato la confusione dei dati presentati dal Govern e la mancanza di rastreadores, così come il governo spagnolo per una politica migratoria «ipocrita» per non aver legalizzato i lavoratori stagionali che lavorano in condizioni precarie a raccogliere la frutta nelle campagne del Segrià.

In Spagna ieri il ministero della salute ha registrato 1400 casi, di cui circa 600 solo relativi alle ultime 24 ore (a cui si aggiungeranno quelli che arriveranno nei prossimi giorni). La metà dei nuovi casi registrati è in Catalogna, seguiti da Aragón e Madrid. Nella capitale catalana, dove si sono registrati questa settimana 414 casi (la precedente erano 500, ma a questa mancano sabato e domenica), si contano 5 casi ogni 100mila abitanti, il doppio della settimana precedente, mentre all’Hospitalet sono 13 e a Lleida sono 60.

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