Rabaa, un anno fa
Un anno fa, intorno a Rabaa al-Adaweya, moschea del quartiere residenziale Medinat Nassr al Cairo, è stato compiuto il «più grande massacro della storia recente, in un solo giorno». È […]
Un anno fa, intorno a Rabaa al-Adaweya, moschea del quartiere residenziale Medinat Nassr al Cairo, è stato compiuto il «più grande massacro della storia recente, in un solo giorno». È […]
Un anno fa, intorno a Rabaa al-Adaweya, moschea del quartiere residenziale Medinat Nassr al Cairo, è stato compiuto il «più grande massacro della storia recente, in un solo giorno». È quanto si legge nel report reso noto ieri da Human Rights Watch (Hrw) sul massacro di Rabaa. Per oltre 40 giorni i sostenitori dei Fratelli musulmani si sono accampati intorno alla moschea e nelle piazze di tutte le grandi città egiziane. Alla fine dell’Eid, la festa che chiude il Ramadan, tutti si aspettavano un atto distensivo che lasciasse gli islamisti manifestare per la «legittimità» dell’ex presidente Mohammed Morsi, democraticamente eletto il 30 giugno 2012 ma arrestato il 3 luglio 2013.
Le migliaia di persone, tra cui tante donne e bambini, avevano raccontato al manifesto le loro speranze che la parte «migliore del paese» non venisse azzittita dai soprusi dei militari. Intanto, i leader della Fratellanza, da Gehad el-Haddad a Mohammed el-Beltagy, da Essam el-Arian a Safwet Hegazy scappavano dall’improvvisato dormitorio, dietro la moschea e l’ospedale di Rabaa. Lasciavano così la loro base elettorale, migliaia di egiziani che si opponevano alla roadmap, disposta dall’allora capo delle Forze armate, Abdel Fattah al-Sisi. Il generale stava per estromettere dalla scena politica il maggior movimento di opposizione, come è poi avvenuto con la messa al bando di Libertà e giustizia, partito della Fratellanza.
Un «massacro pianificato»
«Non si è trattato di un semplice uso sproporzionato della violenza o di mancanza di esperienza. È stato un massacro pianificato ai livelli più alti del governo egiziano. Molti degli ufficiali sono ancora al potere e avrebbero tante domande a cui rispondere», ha denunciato Hrw, chiedendo la fine immediata degli aiuti militari all’Egitto. Ma proprio i dirigenti della think tank per la difesa dei diritti umani, Kenneth Roth e Leah Whitson, sono stati fermati all’aeroporto del Cairo alla vigilia della presentazione del report, completo e impressionante, sui fatti di Rabaa.
Secondo Hrw, il carnefice è proprio il presidente egiziano al-Sisi. A «pianificare il massacro» sarebbero stati l’ex capo delle forze armate, il ministro dell’Interno, Mohammed Ibrahim, e il comandante delle Forze speciali nelle operazioni a Rabaa, Medhat Menshawy. Sono millecentocinquanta i morti (secondo altre fonti oltre due mila e ottocento persone sono scomparse quel giorno) e non 660, come confermato dalla Commissione governativa sul massacro di Rabaa, duramente contestata dai Fratelli musulmani.
Le autorità egiziane hanno attaccato Hrw dopo la diffusione del report definito «parziale e non professionale». Il governo ha accusato l’ong di stilare i suoi rapporti sulla base di resoconti di «testimoni ignoti e fonti non verificate». Secondo le autorità egiziane, Hrw non è autorizzata a lavorare in Egitto e avrebbe violato la sovranità del paese e le leggi internazionali, intervistando testimoni e raccogliendo informazioni sui fatti di Rabaa. In realtà, dopo le presidenziali con scarsa partecipazione elettorale dello scorso maggio, sono nel mirino del governo tutte le ong che operano in Egitto. La nuova legge, approvata in fretta e furia, prevede un controllo serrato delle attività dei think tank per ragioni di sicurezza.
Fuoco sulla folla
Il 14 agosto 2013, la polizia egiziana ha sparato sulla folla facendo uso di munizioni. «Sebbene ci siano le prove che alcuni manifestanti abbiano usato armi da fuoco durante le manifestazioni, Hrw conferma che il loro uso è avvenuto solo in pochi casi, cosa che non giustifica gli attacchi letali predeterminati contro contestatori pacifici», si legge nel report. Lo stesso ministro dell’Interno aveva confermato che appena 15 armi sono state ritrovate nel sit-in.
Quel giorno, le forze di sicurezza hanno attaccato i manifestanti da tutti gli ingressi alla piazza con armi, bulldozer, soldati e cecchini. Non è stato dato un preavviso alla folla né è stato aperto un varco per far defluire i manifestanti pacifici per circa 12 ore. Verso sera, il palco eretto nella piazza, l’ospedale da campo e il primo piano dell’ospedale di Rabaa sono stati dati alle fiamme dalle forze di sicurezza. «Le forze di sicurezza hanno aperto subito il fuoco sulla folla, il governo non ha mai cercato di ridurre al minimo le vittime», denuncia il think tank. Non solo, prima dello sgombero, in un incontro con le associazioni locali per i diritti umani, il ministero dell’Interno aveva detto che ci sarebbero stati almeno 3mila e cinquecento morti. Dopo il massacro, l’ex premier Hazem Beblawy ha dichiarato che il governo si aspettava più vittime delle 2mila che si sono verificate, dimostrando che si trattava di un piano premeditato.
Modello «stato contro terrorismo»
In poche ore, le speranze di una pacifica transizione democratica di milioni di egiziani, dopo le rivolte del 2011, si sono infrante con una carneficina. Da quel momento, i crimini contro l’umanità commessi a Rabaa si sono trasformati in atti criminali sistematici contro i civili, processi politici, detenzioni di massa, omicidi, minacce, limiti alla libertà di espressione, di associazione e di sciopero, insieme a tortura nelle carceri e pene di morte di massa. Nessun giudice egiziano ha avviato procedimenti e indagini sui fatti di Rabaa e sul massacro nei pressi del sit-in islamista del 26 luglio 2013, costato la vita ad almeno 95 manifestanti, sugli scontri di piazza Ramsis del 16 agosto 2013 in cui hanno perso la vita 120 manifestanti, o sulla battaglia del 6 ottobre 2013, in cui sono morte oltre 50 persone. Restano impunite le centinaia di morti quotidiane che riempiono la lista di una contabilità macabra che in un anno porta il numero di vittime a quota 5mila.
Il massacro di Rabaa ha ricacciato indietro l’Egitto di decenni, alla totale arbitrarietà dell’élite militare, connivente con polizia e giudici. I Fratelli musulmani sono stati completamente esclusi dall’arena politica e non potranno prendere parte alle elezioni parlamentari di autunno. Lo spazio della contestazione da sinistra e da destra, nelle fabbriche e nelle università, o da parte dei think tank è ora completamente azzerato. Questo non solo ha riportato l’Egitto alle politiche neo-liberali, con il conseguente abbassamento dei sussidi degli anni di Mubarak, ma ha anche fatto a pezzi le rivolte in tutti i paesi vicini. Il modello dominante, forgiato da Sisi, è la guerra generica dello stato contro il terrorismo (come se gli islamisti fossero tutti terroristi, senza distinzioni). Se gli egiziani per primi hanno digerito questa strategia, lo schema è piaciuto molto anche all’ex generale Khalifa Haftar in Libia, al presidente Bashar al-Assad in Siria e al presidente israeliano Benjamin Netanyahu.
Sisi ha trovato immediatamente il sostegno incondizionato di Vladimir Putin. E proprio alla sua Corte è volato, a Mosca, mentre gli egiziani ricordano i drammatici giorni di Rabaa. Prima aveva ricevuto la consueta benedizione saudita per la sua linea criminale. Ma il danno devastante è stato fatto a Gaza. La mediazione egiziana, accreditata ciecamente dalle diplomazie di mezzo mondo, sta estromettendo Hamas dalla Striscia e riportando il controllo fasullo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) a Gaza. Dopo Rabaa, il governo egiziano e Israele non sono mai stati tanto uguali.
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