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Quieta non movere

Verità nascoste La rubrica settimanale a cura di Sarantis Thanopulos

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 10 febbraio 2018

Mentre si avvicinano le elezioni, tra i leader politici spicca Berlusconi, lo statista di lungo corso invocato dai pragmatisti (esperti agorafobici del piccolo orto).

Si suppone che non sia xenofobo, né razzista. Forte di questo riconoscimento, non avendo più promesse da fare (le ha già fatte e mai mantenute e superano i giorni della sua lunga vita), ha affermato che in Italia ci sono 600.000 clandestini i quali, vivendo di «espedienti e di reati», rappresentano una «bomba sociale» destinata a esplodere in tempi brevi.

Le sue affermazioni, a breve distanza dall’attentato fascista a Macerata, sono un atto deliberato di destabilizzazione dell’assetto emotivo collettivo che egli pensa di poter sfruttare a suo favore. Le parole tradiscono, tuttavia, e nell’abile mescolamento degli espedienti (stato di necessità) con i reati (scelta di una piccola minoranza dei migranti), il programma del loro autore si è rivelato.

Cos’altro propone da venticinque anni Berlusconi, grande «utilizzatore finale» della promiscuità tra espedienti e reati, se non se stesso come paradigma? Il navigare tra improvvisazione e illegalità, il nostro regalo di civiltà agli ospiti indesiderati che si vuole far passare come loro effetto esplosivo.

Mentre Berlusconi imperversa (la prova definitiva che gli spettri abitano regolarmente la nostra casa) il dibattito elettorale elude i problemi fondamentali.

L’ineguaglianza, cresciuta mostruosamente, nella distribuzione dei beni.

La disoccupazione follemente bilanciata con la precarietà lavorativa.

La gestione dei flussi migratori come se fossero un fenomeno endemico da addomesticare e non una realtà permanente legata alla globalizzazione.

Le proposte avanzate dalle varie parti sono tutte orientate al sollievo provvisorio dal dolore, come accade con tutte le malattie ritenute incurabili. Le scelte tra prescrizioni «antidolorifiche» e «antidepressive» sono tante e ugualmente inconcludenti.

Nelle lezioni sulla Nascita della biopolitica, Foucault cita Walpole, primo ministro inglese (dal 1720 al 1742) votato al pragmatismo, che del suo modo di governare diceva: Quieta non movere («Non toccare ciò che se ne sta tranquillo»).

Il problema con questa logica di governo, ben radicata nella cultura politica, è la difficoltà di distinguere la quiete dall’acquitrino o, peggio ancora, dalle sabbie mobili. Profondamente oligarchica, ha come suo unico obiettivo la conservazione e la riproduzione dell’esistente.

Tra le sue riedizioni di oggi rientrano anche strategie di destabilizzazione che producono confusione in superficie e inducono inerzia in profondità.

Gli uomini della finanza, amministratori consolidati della nostra vita che hanno emarginato le istituzioni politiche, sanno bene che la psicologia collettiva (di gruppi, di masse, di comunità) può condizionare la realizzazione dei loro obiettivi. Invece di tener conto della qualità della vita, in modo da operare in una società psichicamente sana, investono nella predeterminazione scientifica dei comportamenti adattandoli a modi di vivere calcolati, ripetitivi. Sennonché il calcolo si è dimostrato un servo che ha assoggettato i suoi padroni e va avanti da solo.

Avanziamo in una società il cui modello è una macchina chiusa nel suo funzionamento (a patto che le si fornisca manutenzione ed energia).

Produce assuefazione e le persone vanno in anestesia, si addormentano a occhi aperti.

Una società così si può governare solo arbitrariamente.

Quando i conflitti (incompatibili con la logica della macchina) si cancellano, occupa lo spazio politico un potere sovrano fondato sul dominio dell’azione normativa: la legge che non regola, ma conforma.

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