È guerra aperta ormai fra la Disney e lo stato della Florida dopo che il governatore ultraconservatore Ron DeSantis ha revocato gli incentivi fiscali che fruttano alla corporation di Topolino centinaia di milioni di dollari di sconto ogni anno e invidiabili agevolazioni. Da oltre mezzo secolo la Disney gestisce il parco di Disney World, vicino ad Orlando, in singolare autonomia, compresa la facoltà di emettere obbligazioni come un vero e proprio comune. L’accordo siglato con le autorità da Walt Disney nel 1968 ha istituito una specie di vera disneylandia con infrastrutture, trasporti e servizi propri e che impiega nello stato oltre 80000 persone.

LA FRUTTIFERA simbiosi si è però incrinata quest’anno in seguito ad un escalation di politiche identitarie e discriminatorie promulgate da DeSantis, il più aggressivo fra i caudillos trumpisti e quello dalle maggiori ambizioni in un eventuale partito post-Trump. A febbraio DeSantis ha proposto il divieto di programmi scolastici e aggiornamenti professionali atti a «provocare disagio» fra gli studenti di razza bianca con l’insegnamento dello schiavismo e del suo retaggio culturale razzista. Poi a marzo il governatore ha firmato la cosiddetta legge «Don’t say gay» che vieta esplicitamente agli insegnanti delle scuole primarie di abbordare temi che trattino di omosessualità o argomenti non eteronormativi. In sostanza un insegnante potrebbe ad esempio venire licenziato se dovesse menzionare ai compagni le due madri o due padri di uno studente figlio o figlia di coppia gay.

LA LEGGE è stata ampiamente denunciata come omofoba e discriminatoria da politici e intellettuali. Soprattutto ha provocato forti proteste all’interno della stessa Disney quando si è scoperto che l’azienda aveva dato contributi ai repubblicani fautori della norma. In seguito ad uno sciopero di dipendenti Disney, l’amministratore delegato Bob Chapek ha annunciato la sospensione di «ogni ulteriore contributo politico» in Florida. Un’azione giudicata insufficiente dai militanti Lgbtq+ che hanno reclamato «sanzioni» specificamente mirate ai conservatori ed una presa di posizione più chiara e netta contro le leggi che lo stesso presidente Biden ha definito «odiose». Chapek ha quindi fatto una precipitosa mea culpa chiedendo scusa agli impiegati con una lettera in cui affermava di «aver compreso la necessità di una presa di posizione più netta».

DeSantis ha quindi alzato il tiro, denunciando la Disney come fautrice di indottrinamento gender di minori, intenta a traviare i valori delle famiglie tradizionali. L’attacco è stato subito amplificato dagli organi nazional populisti come Fox News e sui social dove da giorni l’hashtag «woke Disney», rimbalza come l’ultima molotov lanciata sulle braci delle «culture wars». La strategia è risultata efficace provocando la spaccatura desiderata. Sui canali di destra si va dalla generica esasperazione per l’eccessiva correttezza politica lamentata da mamme nostalgiche per le «principesse e sirenette di una volta», agli integralisti evangelici che denunciano la distruzione delle famiglie tradizionali da parte di pedofili globalisti. Quest’ultima ricorrente ossessione è ormai immancabile ingrediente dell’indignazione populista contaminata di Qanon che stavolta ha però iscritto nei ranghi dei «groomer », ovvero chi subdolamente prepara minori da circuire a scopo sessuale l’azienda di Topolino.

Mentre non è inedito il cinismo con cui viene fomentato il «panico morale» attorno a temi (particolarmente di gender) per profitto elettorale, è nuova la disinvoltura con cui amministrazioni repubblicane danno seguito legislativo alla retorica con leggi provocatoriamente anti libertarie. Il Texas ad esempio minaccia di sanzionare aziende che come Yelp hanno promesso di rimborsare le impiegate costrette a lasciare lo stato per abortire (in Texas è ormai vietato dopo le sei settimane); in Alabama è diventato illegale fornire assistenza anche psicologica per l’affermazione di genere ad un minore.

Molto grande capitale americano che nell’ultimo mezzo secolo ha compiuto (e tratto ampio profitto da) una parabola socialmente progressista si trova ora sempre più spesso coinvolto nelle «culture wars» fomentate dai conservatori populisti e fra i due fuochi inconciliabili di «responsabilità aziendale» e la soddisfazione del massimo numero di clienti.

UN NUMERO sempre maggiore di tematiche politiche (e di recenti norme anti-pandemia) stanno mettendo dura prova l’assioma del cliente che ha sempre ragione. Il campo è particolarmente minato nel caso dell’industria culturale e di un brand come quello Disney che dopo aver rappresentato per un periodo i valori familiari «tradizionali» gode oggi di grande favore proprio nella comunità Lgbtq+. Ogni anno decine di migliaia di persone si danno appuntamento a Disney World e Disneyland per un festival denominato «Gay Days» con eventi speciali e souvenir ufficiali appositamente prodotti dall’azienda. Il «comparto» rappresenta insomma un settore commerciale importante attivamente corteggiato dalla Disney che promuove l’inclusione anche con personaggi gay nei propri film.Gli scontri identitari e le politiche sempre più aggressive delle amministrazioni di destra, pongono dunque, non solo per la Disney, il problema di come operare in una nazione caratterizzata da una cittadinanza – e quindi un parco clienti – sempre più irriconciliabilmente (e intenzionalmente) diviso.

LE POLITICHE progressiste o quantomeno socialmente inclusive di Hollywood male si sposano con l’astio diffuso da politici populisti alla ricerca di consensi elettorali. Nella guerra culturale generalizzata, il capitalismo americano si trova in mezzo e spesso i ruoli politici sono invertiti: la destra Gop (tradizionale partito degli affari) attacca le aziende senza pietà mentre democratici e attivisti sociali le difendono.

E poi ci sono i capitalisti del liberismo digitale che si trovano invece del tutto a proprio agio nella retorica populista, primo fra tutti il filo trumpista Elon Musk che mentre preparava l’acquisto – concluso ieri – di Twitter ha trovato il tempo per spiegare la crisi di Netflix col contagio del «virus woke».