Anche se non è mai consigliabile fare riferimento ai luoghi comuni, è innegabile che la società italiana attuale si configuri come del tutto inadatta ai giovani. La scuola è, da questo punto di vista, un osservatorio straordinario di quanto poco conti il soggetto principale intorno al quale, per il bene del quale, l’istituzione dovrebbe, in teoria, costruirsi: lo studente. Talmente trasparente e invisibile da poter essere rimosso nei casi in cui le necessità delle attività essenziali, vale a dire quelle ritenute direttamente produttive dai dispositivi del potere, lo richiedano.

Finita la pandemia, dopo un paio di anni di confino in casa con le scuole chiuse, i ragazzi e le ragazze italiani sono diventati l’oggetto di politiche repressive espressamente dedicate dal governo della destra: la povertà educativa si contrasta con il carcere e i Daspo, mentre il Documento di Economia e Finanza – per quello che se ne sa al momento – non prevede nuovi investimenti per l’istruzione. Con questo sigillando l’atteggiamento sconfortante della società contemporanea nei confronti degli attori che sulla scena degli istituti scolastici si muovono.

Non stupisce, di conseguenza, che ogni sforzo sia volto a convincere gli studenti che fine ultimo della scuola non è il sapere, il libero accesso alla conoscenza attraverso la messa a disposizione di strumenti che favoriscono lo sviluppo della capacità critica autonoma ma, esclusivamente, il veloce accesso alla «produzione», l’approdo rapido «al mondo del lavoro».

A chi, come me, all’insegnamento nella scuola ci è arrivata dopo percorsi diversi (l’informazione, la comunicazione ma anche il femminismo e i movimenti del precariato), fa molto spavento osservare il tentativo di rendere proprio la scuola il luogo privilegiato del controllo.

Ovvio che il passaggio dalla società fordista a quella del capitalismo biocognitivo relazionale e poi della sorveglianza delle piattaforme e dell’intelligenza artificiale non potesse lasciare intoccata la fonte dove si forgia la materia prima che viene processata dai nuovi paradigmi di accumulazione: la conoscenza e le forme di relazione tra persone che si incontrano e scambiano tra loro questa «merce».

La parola d’ordine è dunque orientare, indirizzare rendere questo processo utile all’accumulazione e perciò, solo in questo caso, meritevole. E questa utilità, questo merito, misurarli, misurarli incessantemente secondo i dettami del lifelong learning. Il cottimo infinito della scuola infinita, ordinata da altri.

L’inclusione differenziata nel sistema formativo ha da tempo previsto l’introduzione generalizzata di sistemi valutativi in grado di fornire misurazioni «oggettive» del «valore» di studenti e docenti attraverso digitalizzazione e automazione del sistema educativo (griglie di valutazione; e-learning; certificazioni di competenze; test…).

Adesso, la riforma degli istituti tecnici e professionali che il ministro dell’Istruzione del Merito, Giuseppe Valditara, sta pensando di introdurre, già dal prossimo anno scolastico (il disegno di legge dovrebbe essere varato alla fine di settembre), amplifica questo tipo di approccio: per tali ordini di scuole gli anni di formazione scolastica diminuiranno a quattro, mentre aumenteranno il numero di ore di alternanza scuola-lavoro e il percorso si concluderà con due anni post diploma durante i quali i ragazzi e le ragazze verranno seguiti da insegnanti esterni all’organico scolastico e interni al mondo del lavoro.

Gli studenti saranno, cioè, lavoratori non pagati per due interi anni. Secondo le parole di Valditara si tratterebbe di «una strategia fondata sulla connessione delle politiche d’istruzione, formazione e lavoro con le politiche industriali».

Si nota, in questo passaggio, come la scuola sia indotta a dismettere il proprio ruolo di luogo di crescita culturale, di spontanea maturazione, di appropriazione possibilmente diretta e attiva di strumenti curriculari che facilita lo sviluppo di affettività e di attitudini, volutamente separato dalle imposizioni della realtà lavorativa. Tutto viene ricondotto a un unico momento ri-produttivo standardizzato e appropriabile.

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Posso aggiungere, in forza della mia esperienza sul campo, che alcune giovani menti pensanti con cui ci interfacciamo, hanno assorbito il messaggio. Nei tecnici, nei professionali, in qualche modo si asseconda il progetto. Nel crescere dello spettro della precarietà, dell’espulsione e della marginalizzazione, i ragazzi e le ragazze sono stati forzati, anche dalle famiglie, a ritenere, appunto, utile e meritevole solo un percorso che prometta rapidi risultati lavorativi, considerando sempre meno che scopo dell’istruzione è quello di aiutare le persone a capire gli aspetti sociali e culturali del mondo nel quale si vive. Tutto ciò con ovvie conseguenze da un punto di vista di classe, nella separazione verticale tra i vari tipi di scuola, mai del tutto scomparsa ma certamente messa in discussione dalla scolarità di massa introdotta dagli anni Settanta.

Quanti studenti immigrati vengono unicamente indirizzati verso gli istituti professionali senza alcun rispetto per preferenze, passioni, inclinazioni? La scuola addirittura si apre, come abbiamo scritto, alle forze armate, facendo balenare l’idea che perfino la guerra potrebbe diventare uno sbocco professionale non disprezzabile.

Cosicché, fuori dalle burocrazie, dal terrore dei ricorsi, dalle lotte tra insegnati e genitori, dalle ricercate competizioni tra docenti tutti poveri e tutti precarizzati, dalle riunioni interminabili, da una selva di iniziative che di intento didattico e culturale hanno poco, la scuola ha consapevolezza dell’immensa ricchezza umana non misurabile rappresentata da studenti e studentesse che ogni giorno popolano le aule, rendendole vive? Ne ha vaga cognizione la società intera?

Proprio parlando di scuola si sostanzia e si rinnova la dizione cura comunitaria. Il pensiero femminista ci invita da sempre a rendere pratica concreta l’attenzione verso l’Altra o l’Altro, ovvero la tensione nei confronti dei legami e dei corpi, delle relazioni umane fondamentali, sempre connesse alle condizioni reali e ai desideri delle persone.

La forza delle relazioni instaurate e coltivate rimane, infine, la vera pietra su cui la scuola può ricominciare a costruire, fuori dalle ingiunzioni di potere e mercato. La battaglia politica per l’istruzione pubblica deve ripartire da qui.