Quell’ossimoro del destino manifesto
Intervista Parla Hernan Diaz, autore del romanzo «Il falco», finalista al Pulitzer. Un western controcorrente che racconta l’epopea di un immigrato svedese attraverso gli Stati uniti della metà dell'Ottocento. «Ho voluto cimentarmi, per svelarne le contraddizioni, con il genere che ha reso romantico il mito sanguinario della nascita del paese, tra vigilantes, razzismo e violenza»
Intervista Parla Hernan Diaz, autore del romanzo «Il falco», finalista al Pulitzer. Un western controcorrente che racconta l’epopea di un immigrato svedese attraverso gli Stati uniti della metà dell'Ottocento. «Ho voluto cimentarmi, per svelarne le contraddizioni, con il genere che ha reso romantico il mito sanguinario della nascita del paese, tra vigilantes, razzismo e violenza»
È a metà dell’Ottocento che Håkan Söderström lascia la Svezia con il fratello Linus alla volta degli Stati Uniti. Vengono dalle foreste di Tystnaden per cercare fortuna nella metropoli americana che chiamano Nujårk. Ma i due si separano per errore su un pontile di Portsmouth, in Inghilterra, dove Håkan finisce per imbarcarsi sulla nave sbagliata, giungendo alla fine a San Francisco. A questo punto, per cercare di ricongiugersi con Linus, decide di attraversare il paese alla volta di New York, compiendo l’itinerario contrario a quello che negli stessi anni le persone intraprendono verso il selvaggio West. Håkan sopravviverà a stento al viaggio, senza parlare una sola parola di inglese, rischiando di morire di fame e di sete, di essere ucciso da uomini e animali, immergendosi ogni giorno di più in un universo dove la violenza domina ogni cosa. Lui stesso si vedrà costretto ad uccidere e si trasformerà in un «essere» di cui ha paura e che lo disgusta.
Debutto letterario dell’intellettuale argentino, ma newyorkese di adozione, Hernan Diaz, Il falco, traduzione di Adua Arduini (Neri Pozza, pp. 288, euro 17), finalista al Pulitzer 2018, si presenta come una sorta di selvaggia rilettura del canone narrativo del western, dove gli elementi costitutivi del genere sono capovolti per rivelarne l’implicita natura ideologica e mistificante, che cela violenza gratuita, sadismo e uno spirito diffuso di sopraffazione.
Nato a Buenos Aires nel 1973, figlio di una psicanalista e di un cineasta trotzkista che furono costretti a lasciare il paese dopo il golpe militare del 1976, Diaz è cresciuto a Stoccolma prima di stabilirsi a New York dove dirige l’Istituto ispanico della Columbia University; specialista dell’opera di Jorge Luis Borges, ha pubblicato Borges, Between History and Eternity.
Il suo romanzo assomiglia ad un «western»: cosa l’ha spinta ad utilizzare questo canone narrativo, seppure per stravolgerlo?
In realtà il libro è una specie di «esperimento» sul western. Nel senso che la storia è ambientata per la maggior parte negli anni che precedono la Guerra civile, mentre i classici del genere, sia letterari che cinematografici si svolgono nel periodo successivo a quel terribile conflitto. Inoltre, il protagonista non sta andando verso Ovest, al contrario della «corsa al West» di quel periodo, ma sta inseguendo una sorta di personale «destino manifesto» che lo spinge in direzione della corsa orientale. Direi perciò che nel libro le caratteristiche principali del genere sono sì citate, ma soprattutto per essere sovvertite. Volevo scrivere un libro western, ma poi, man mano che procedevo nel lavoro, mi sono accorto che stavo costruendo una sorta di «contro-narrazione» del mito della conquista della frontiera. Del resto, il western ha sempre rappresentato un quesito aperto per me. Lo si potrebbe definire lo strumento narrativo – e parlo in questo caso della cultura popolare in senso lato, non solo nella letteratura -, attraverso il quale si è cercato di «ripulire» la storia americana, rendendo attraente il mito sanguinario della nascita di questo grande paese. Il fenomeno dei vigilantes, l’avidità, il saccheggio sono stati trasformati in temi romantici attraverso il western che ha «onorato» i peggiori aspetti della spinta imperiale degli Usa, compreso il razzismo genocida vergo le popolazioni indigene. Allo stesso modo, esiste come è noto un’ossessione tutta americana per lo spazio e l’esplorazione, ma alla fine film e racconti western tendono a degradare la natura ad una semplice fonte per l’estrazione della ricchezza. Tutto ciò, senza contare le altre caratteristiche principali del genere: il fatto che viene favorito l’individuo rispetto alla legge e alla società, oltre alla fissazione per le pistole e la violenza, per non parlare del sessimo e del ruolo subordinato delle donne. E la lista potrebbe continuare a lungo.
Come ha sottolineato Lawrence Downes, recensendo, e molto positivamente, «Il falco» sul «New York Times», nella grande letteratura americana gli autori western occupano però uno spazio irrisorio, perlomeno fino ai romanzi di Cormac McCarthy considerati come degli «anti-western».
In effetti, nonostante si tratti per molti aspetti del genere che ha plasmato la storia nazionale, dal punto di vista del canone letterario, occupa un posto davvero marginale. Codificato come genere solo nei primi anni del Novecento, molti dei suoi testi più importanti sono stati prodotti nella seconda metà del Ventesimo secolo ma non sono più stati ripubblicati e sono ormai fuori commercio. Se confrontiamo tutto ciò con le caratteristiche di un altro genere molto diffuso in America, il poliziesco, nato intorno al 1840, e il cui influsso va ben oltre il regno della letteratura – visto che ci ha insegnato come la realtà non sia data ma abbia bisogno di essere costantemente decifrata -, ci rendiamo conto di quanto è accaduto. Anche per questo il western mi attraeva: da romanzo di formazione degli Stati uniti a genere in stato di abbandono! Così, a causa delle sue connotazioni ideologiche e della sorte toccatagli, mi sembrava che mettere le mani sul western fosse un modo perfetto per dire qualcosa su questo paese.
Il romanzo si presenta come «un ritratto di radicale estraneità». La drammatica epopea di Håkan Söderström nasconde il paradosso della costruzione di un’identità collettiva, quella normalmente celebrata dal western, che si basa però non solo sull’individualismo, ma su una sorta di perdita di se stessi?
La storia del protagonista non è casuale e ha per molti versi a che fare con la mia stessa esperienza di «estraneità». Sono nato in Argentina e me ne sono andato quando avevo due anni: la mia famiglia si è trasferita in Svezia. Sono cresciuto a Stoccolma, con lo svedese come prima lingua di socializzazione, quella con cui mi sono fatto i primi amici. Questo, finché la mia famiglia non è tornata in Argentina; all’epoca avevo circa nove anni. A Buenos Aires non mi sentivo a mio agio e perciò appena ho potuto, sono partito per Londra, dove ho vissuto per un paio d’anni, poco più che ventenne. Da Londra mi sono trasferito a New York, e ora abito a Brooklyn da quasi vent’anni. L’esperienza dell’estraneità ha determinato la mia intera esistenza. E con il mio primo romanzo volevo ricreare quella sensazione. Allo stesso tempo però, questa è una storia molto americana. Ci ricorda che l’estraneità fa parte dell’esperienza americana, basata su di un confonto costante tra l’individuo e la collettività, tra la specificità di ciascuno e le norme culturali e ideologiche che si vogliono imporre a tutti: un confine mobile sul quale si misura lo sviluppo e lo stato d’animo più profondo del paese.
Impossibile non interrogarsi sul fatto che la storia di un immigrato che cerca fortuna in America, e vi trova invece violenza, solitudine e ostilità, appaia quanto mai attuale e illuminante nell’«era Trump».
Mi ci è voluto molto tempo per scrivere questo libro. L’ho iniziato durante il primo mandato di Obama, e l’ho finito mentre stava celebrando il suo ultimo 4 di luglio alla Casa Bianca. Perciò non stavo pensando esplicitamente a Trump mentre lavoravo, ma al centro dei miei pensieri c’era il ruolo decisivo che l’immigrazione ha avuto nella storia di questo paese fin dal suo inizio. Ruolo che è andato di pari passo con molteplici forme di violenza e di esclusione. E questo fino ai giorni nostri. Mi sono chiesto: chi arriva qui, ora come in passato, ha davvero diritto di parola, può raccontare la propria storia o viene messo a tacere? C’è, o no, spazio per tutti in una terra così vasta? Tutti interrogativi che sono inestricabilemente intrecciati con la storia americana e il divenire del paese. Nel frattempo è arrivato Trump e tutte le misure discriminatore che sostiene. Fino all’abrogazione del Daca (il Deferred Action for Childhood Arrivals, nda) che tutela chi è arrivato da bambino negli Stati uniti e che è oggetto di un braccio di ferro tra la Casa Bianca, che vorrebbe cancellarlo, e i tribunali a cui si sono rivolte le persone che sono cresciute nel paese e che ora qualcuno dipinge come «stranieri» con tutto quello che ne consegue. In Svezia, negli anni Settanta, i miei genitori erano rifugiati politici che fuggivano da una dittatura e quel paese offriva a me bambino tutti i diritti. Perciò sono felice che questo romanzo sia uscto proprio adesso. Non riuscirei a pensare ad un modo migliore per dire cosa penso degli Stati uniti, paese che ho scelto e che amo nonostante i suoi enormi difetti. Ma che continua anche a farmi paura.
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