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“Quelli che stanno sotto” alzano il ritmo. E Dilma raddoppia

“Quelli che stanno sotto” alzano il ritmo. E Dilma raddoppiaIl boss della Federcalcio brasiliana e del comitato organizzatore Marin con Dilma Rousseff allo stadio Mané Garrincha di Brasilia

La balena sudamericana Dai «Descobridores» al Fondo monetario internazionale. Le diseguaglianze sociali restano abissali. Ma da Lula in poi 20 milioni di persone sono uscite dalla povertà

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 7 giugno 2014

Il Brasile? Una balena al ritmo di samba. Un ritmo binario, dove il corpo del ballerino si muove a passi sfrenati dalla vita in giù e resta quasi immobile dalla cintola in su: il ritmo “schizofrenico” del samba, cuore del Carnevale, che irrompe e disorienta gli avversari sul campo di calcio. Un paese che si estende per 8,5 milioni di kmq, pari al 47% del Sud America: più grande degli Stati uniti. È un’unione federale di 26 stati e un distretto, in cui il disequilibrio tra potere centrale e poteri periferici riflette quello tra grandezza naturale del territorio e disuguaglianza sociale. Disuguaglianze che restano abissali anche dopo 11 anni di governo di centro-sinistra e gli innegabili progressi sociali. Nel quadro Os Descobridores, dipinto da Belmiro de Almeida negli anni Novanta dell’800 e fatto restaurare dal governo nel 2000 per il quinto centenario della scoperta del Brasile, compaiono due uomini divisi da un albero. Uno è in piedi davanti all’oceano, l’altro è accasciato, si appoggia al tronco e guarda per terra, sfinito. La stanchezza de los de abajo, quelli che stanno sotto. Nel 1870, Victor Hugo levò la propria voce contro il persistere della schiavitù in Brasile ben oltre la sua abolizione ufficiale. Nell’infame commercio negriero, finirono in Brasile 4 degli 11 milioni e 400mila africani trasportati nelle Americhe. E da allora il paese «è una terra con una maschera bianca su una faccia scura». Ancora oggi che al calcio – in origine riservato all’aristocrazia bianca -, partecipano giocatori di pelle diversa, gruppi di tifosi gettano in aria del borotalco: in ricordo dei calciatori che si sbiancavano la faccia con polvere di riso prima delle partite. Nonostante qualche correttivo, la discriminazione razziale è ancora palpabile in Brasile, così come è evidente il dramma delle popolazioni native, private della terra e della propria identità dagli interessi delle multinazionali. Il bel film di Marco Bechis, La terra degli uomini rossi – che racconta il suicidio di un giovane guaranì – aiuta a capire il dolore e la rabbia dei popoli indigeni, scesi in campo con arco e frecce nelle proteste contro i Mondiali. Da una parte, il futuro da grande potenza regionale, modulato dalle dinamiche internazionali a guida Usa nel rapporto tra «sicurezza e sviluppo». Dall’altra, i profondi conflitti di natura sociale e regionale. La «paura del comunismo», che avrebbe potuto usare l’educazione degli ufficiali per incanalare rivendicazioni economiche, conflitti locali e anticoloniali, spinse Washington a divulgare le proprie teorie sulla «sicurezza nazionale» attraverso la Scuola superiore di guerra (Esg), principale centro di formazione dell’esercito nel contesto della «guerra fredda». E con la stessa logica, per contenere la rabbia delle masse affamate e impoverite, Usa e Fondo monetario internazionale hanno caldeggiato l’attuazione di alcuni piani assistenziali come «Bolsa familia», resi possibili dall’elezione di Lula da Silva (2003-2011): comunque correttivi e non riforme strutturali, spiega l’economista Ceci Vieira Juru nel libro di Aldo Zanchetta L’arretramento de los de arriba (Massari editore). Il governo – afferma Juru – ha fatto accordi con il grande capitale internazionale dicendo: noi garantiamo i contratti e voi il flusso necessario allo sviluppo. Con la politica di privatizzazioni – passate negli anni del neoliberismo, ma proposte come ricetta insuperabile e vantaggiosa dal centrosinistra moderato di tutto il mondo – si è imposta la logica del mercato e della globalizzazione capitalista: che favorisce gli interessi delle compagnie e fa pagare i costi dei servizi e dei disservizi ai consumatori. In Brasile, a tenere la chiave della cassaforte restano comunque uomini di fiducia delle grandi istituzioni internazionali. Il vento di una nuova sovranità si sta però facendo strada nel quadro di un mondo multipolare. La «lotta al terrorismo», dilagata dopo l’11 settembre del 2001, ha usato il tema della «sicurezza» e della lotta la narcotraffico per estendere le basi militari nei posti strategici dell’America latina. Ma già nel 2009 – nel nuovo quadro di integrazione regionale che ha interessato anche i paesi di sinistra più moderata come il Brasile – il presidente Lula esprimeva a Washington la propria contrarietà. Eppure, come ha rivelato la fonte del Datagate Edward Snowden, nel paese hanno continuato a operare almeno 5 basi militari Usa clandestine: per sorvegliare la politica economica del gigante latinoamericano e quella dei suoi pericolosi vicini (i governi socialisti). Il Brasile è l’unico paese ad aver partecipato a tutte le coppe del mondo dal 1930 in poi, ma una recente inchiesta mostra che la maggioranza dei cittadini non tornerebbe a ospitare i mondiali di calcio. Fuck world cup! gridano i movimenti sociali, scesi in piazza per protestare contro sprechi, corruzione e mercificazione della vita. E interrogano le promesse elettorali della presidente Dilma Rousseff, nuovamente in campo per le elezioni del 5 ottobre. Privo di maggioranza politica, sia alla Camera che al Senato, il Partito dei lavoratori non ha margini di manovra per operare grandi cambiamenti legislativi. E cerca alleanze con i conservatori. Tuttavia, venti milioni di persone sono uscite dalla povertà, vi sono stati miglioramenti importanti nel livello di vita degli esclusi e in quello delle classi medie. Ma ora – al netto di ingerenze e interessi che mirano a far cadere il governo – una parte di società più matura chiede di andare avanti verso un nuovo modello di sviluppo. Dilma ha affermato di voler «ascoltare la voce del popolo» e ha raddoppiato i finanziamenti per l’istruzione. «Sono convinta che alla fine i brasiliani se ne staranno a casa a bere una birretta e a godersi le partite», ha detto. Lei, grande tifosa del futebol (e superstiziosa), sostiene che quando era in carcere durante la dittatura, il Mondiale del 1970 le ha insegnato a far la differenza tra calcio e politica: la seleção è della nazione, non di un governo. Intanto, allora toccava legno o incrociava le dita. Probabilmente lo farà anche tra il 12 giugno e il 13 luglio: perché l’uomo accasciato nel quadro si sta mettendo al centro della scena.

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