Quel “ripudio” dimenticato, ma voluto dai resistenti
Sull’articolo 11 è calato l’oblio. Non ne hanno parlato Draghi nell’informativa né le camere nella risoluzione approvata quasi all’unanimità il 28 febbraio. I grandi partiti hanno taciuto, non diverso è […]
Sull’articolo 11 è calato l’oblio. Non ne hanno parlato Draghi nell’informativa né le camere nella risoluzione approvata quasi all’unanimità il 28 febbraio. I grandi partiti hanno taciuto, non diverso è […]
Sull’articolo 11 è calato l’oblio. Non ne hanno parlato Draghi nell’informativa né le camere nella risoluzione approvata quasi all’unanimità il 28 febbraio. I grandi partiti hanno taciuto, non diverso è stato il comportamento dei media. Eppure l’articolo 11 non è una norma di dettaglio della Costituzione italiana. In esso è sancito il ripudio della guerra: un principio supremo dell’ordinamento. E in quanto tale inderogabile, irrivedibile, in grado di vincolare l’azione di tutti i pubblici poteri e di prevalere automaticamente su qualsiasi altra fonte del diritto interna o anche esterna al nostro ordinamento.
Un principio, quello pacifista, che il Costituente ispirandosi alla costituzione repubblicana spagnola (1931), volle formulare impiegando parole quanto mai forti, fino a preferire, alla meno efficace formula «rinuncia», il verbo «ripudia», proprio in considerazione del suo «accento energico» che «implica così la condanna come la rinunzia alla guerra».
Certo, potremmo continuare a far finta di nulla e illuderci che si tratti solo di distratte omissioni delle istituzioni italiane oggi alle prese con gli scenari di guerra. Ma sbaglieremmo. Perché non di disattenzione si tratta, ma di una precisa scelta politica. Se oggi dell’articolo 11 nessuno più parla è perché la sua vigenza è ritenuta scomoda, un ingombro normativo che è meglio scansare. È quanto è avvenuto il 28 febbraio, quando – contestualmente all’instaurazione dello stato di emergenza – si è deciso con un decreto di «sostenere le autorità governative ucraine, mediante la cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari». Tutto ciò in «deroga» anche alle leggi vigenti (legge 185/1990). «L’Italia ha risposto all’appello del Presidente Zelensky» ha detto Draghi in parlamento. E non avrebbe potuto essere diversamente a fronte di una guerra di aggressione scatenata nei confronti di uno Stato sovrano e condotta attraverso bombardamenti a tappeto su civili, città, obiettivi strategici. Di qui l’impegno assunto dal governo italiano (di concerto con gli altri esecutivi europei) finalizzato ad arginare alcune delle conseguenze più gravi prodotte dalla crisi umanitaria in atto. A cominciare dall’adozione di precise misure per l’accoglienza dei profughi.
Tutto cambia però, in modo grave e precipitoso, quando l’intervento umanitario predisposto da uno Stato si trasforma in intervento bellico e l’offerta di aiuto a un popolo aggredito inizia improvvisamente ad assumere, attraverso l’invio di armi a un governo straniero, i tipici connotati del dragging into war. In assenza di specifiche risoluzioni Onu, analoghe a quelle approvate nel 1990 all’indomani dell’invasione irachena del Kuwait, ma solo per un mandato in bianco conferito dal parlamento al governo. Mandato che consente oggi al ministro della difesa (congiuntamente ai colleghi di esteri ed economia) di compilare discrezionalmente l’«elenco dei mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari oggetto della cessione … nonché le modalità di realizzazione della stessa» (art. 1, d.l. 16/2022).
Insomma il dubbio che inizia a emergere è che l’Italia, anziché ripudiare la guerra, come prescrive l’art. 11, abbia messo in conto di farla. È quanto è possibile, fino a oggi, percepire non solo dall’invio di armi in Ucraina o dall’informazione di guerra che continua a serpeggiare nel paese, ma anche dal recente ordine del giorno approvato alla camera che impegna il governo a incrementare le spese militari fino al 2% (così come preteso dalla Nato). E domani? Cosa accadrà? Cosa accadrà quando comprenderemo che l’invio delle armi non ha scalfito i rapporti di forza e che la resistenza del popolo ucraino non sarà in grado di sconfiggere il potente esercito russo? Invocheremo anche noi, animati dalle politiche di riarmo, l’intervento della Nato? Decideremo che l’escalation è l’unica soluzione perseguibile – costi quel che costi – compresa l’assunzione del «rischio nucleare»?
Mi auguro che ci si fermi in tempo. E che in tempo si comprenda che aver rimosso l’articolo 11 non è stata una buona scelta. Così come mi auguro che la politica italiana si persuada, una volta per tutte, che il principio costituzionale pacifista non è uno strumento obsoleto e l’articolo 11 non è una disposizione vigliacca. Perseguire con determinazione la via diplomatica e scartare, a priori, la guerra quale strumento di risoluzione delle controversie internazionali è l’unica soluzione realisticamente perseguibile.
Ad avercelo insegnato è stata la generazione costituente. Donne e uomini forgiati dai valori della resistenza antifascista, umanamente provati dai “flagelli” di due guerre mondiali, atterriti da Hiroshima. È a loro che si deve la decisione di collocare il principio pacifista tra i pilastri portanti del nostro ordinamento democratico. Una lezione di civiltà (ma anche di realismo) che la Repubblica ha, oggi più che mai, il dovere di fare propria.
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