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Quei giochi incompiuti

Quei giochi incompiutiLo scoramento di Neymar al termine di Belgio Brasile – 2-1 foto La Presse

Russia 2018 Non sarà il Maracanazo del '50 e nemmeno il disastro con i tedeschi quattro anni fa, certo l’eliminazione del Brasile ad opera del Belgio genera più di qualche dubbio sul calcio verdeoro

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 8 luglio 2018

Ricordo l’aria che si respirava allo stadio Mineirao di Belo Horizonte quattro anni fa, dopo il 7-1 in semifinale con cui la Germania aveva stracciato il Brasile al suo secondo mondiale casalingo. Sui giornali di tutto il mondo si sprecavano i paragoni con la tragica finale del 1950, nella sola altra Coppa disputata in Brasile, quando la seleçao aveva perso contro l’Uruguay di Obdulio Varela nella partita che tutti ricordiamo come Maracanaço. Intorno al Maracanaço sono nate diverse leggende – la più nota riguardante una serie di suicidi di tifosi verdeoro al fischio finale. Niente o quasi di vero, ma su quella seleçao i poteri di allora – erano gli anni del Generale Dutra – avevano costruito un discorso patriottico e nazionalista molto potente. La sconfitta, del tutto inaspettata, contribuì all’emersione di quello che lo scrittore Nelson Rodrigues battezzò il «complexo de vira lata», un profondo complesso di inferiorità dei brasiliani nei confronti del resto del mondo.

Il 7-1 di Belo Horizonte non fu altrettanto tragico. Non solo per il risultato, farsesco (al Mineirao ricordo più risa che pianti). Il fatto era che nel frattempo il Brasile aveva vinto cinque Mondiali, quanti nessun’altra nazione; e soprattutto era diventata una potenza mondiale, un paese più moderno, consapevole (e orgoglioso) di non dover dipendere più dall’esito di una partita di calcio. Ricordo la calma dell’allora Ct Scolari in conferenza stampa, la sua previsione che al mondiale russo del 2018 il Brasile sarebbe tornato, come sempre, ad avere la squadra più forte.
E oggi? Come è stata presa la sconfitta di venerdì a Kazan contro il Belgio? La linea è quella di mettere definitivamente in soffitta sia il complexo de Vira-Lata sia il pachequismo – il cieco senso di superiorità del tifoso brasiliano, dal nome di un pupazzo presuntuoso, Pacheco, inventato dalla Gillette per le pubblicità del mondiale ’82. La seleção di quest’anno era davvero, di nuovo, tra le squadre più forti e complete del mondiale – quella che ha creato più occasioni di goal e tra quelle che ne hanno subite meno, lo dice la statistica – ma il Belgio non era da meno: soli 11 milioni di abitanti e tre attaccanti di pari livello, se non superiore, ai loro omologhi brasiliani. Carlos Mansur, prima firma sportiva di O Globo, parla di una partita «decisa dagli episodi», giocata meglio dell’avversario per «tre quarti del tempo» e che verrà ricordata come «quasi vinta». La selezione di Tite, successore di Dunga e Scolari, ha finalmente «trovato un nord, una direzione chiara». Sulla Folha di Sao Paulo si ricorda ai lettori che nel calcio «esistono i pali» (Thiago Silva ne ha preso uno a inizio partita) e i portieri (il belga Courtois ha offerto una prestazione strepitosa). Ora, secondo Mansur, il Brasile ha una grande opportunità: continuare sulla strada intrapresa, senza distruggere tutto come al solito. Ma sotto la superficie c’è qualcosa di più: se già nel 2014 le strade di Rio non erano più tappezzate come un tempo dei festoni con i colori verdeoro e dalle facce dei craques della seleçao, oggi la tendenza si è accentuata. L’amore per la seleçao non è più forte come un tempo.

Contribuiscono  la crisi politica (all’esordio della coppa i tweet a riguardo erano il doppio rispetto a quelli dedicati alla nazionale) e la distanza sempre maggiore con il campionato nazionale (dei 23 selezionati, solo tre – e un solo titolare – giocano nel Brasileirao). Preoccupa poi il crollo della reputazione di Neymar, l’ultimo grande campione brasiliano: con le sue bambinate con il Paris Saint German e le simulazioni in questo mondiale (si sono contate 43 cadute per un totale di otto minuti a terra), il Brasile rischia di alienarsi anche la simpatia di cui ha sempre goduto dal resto del mondo.

L’antidoto non potrà essere che un ritorno alla vittoria, magari già dall’anno prossimo con la Coppa America in casa. E con Tite, il ct che dovrebbe essere confermato, scelto tardivamente nel 2016 dall’attuale presidente della federazione brasiliana, Nunes, un colonnello della polizia militare con un curriculum di scandali da far impallidire Tavecchio. Per poi preparare la rincorsa al mondiale qatariota del 2022, quando Neymar e Coutinho avranno ancora solo trent’anni e di nuovo, come sempre, il Brasile sarà la squadra più forte del Mondiale.

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