Mentre ci aspettiamo da un momento all’altro che la catastrofe aperta tra Israele e Palestina conosca un altro passo verso l’abisso per tutto il Medio oriente e forse per il mondo intero, ci appassioniamo ai combattimenti sul ring olimpionico tra Imane Khelif e le sue avversarie.

D’altra parte le polemiche nostrane e globali intorno al palcoscenico olimpico parigino non sono immuni dal clima bellico che ci circonda e ci attraversa. La guerra attualmente è così forte nelle passioni e negli interessi che non si è potuto nemmeno immaginare uno straccio di “tregua” nel supposto “spirito olimpico”.

Al contrario la competizione amico-nemico informa di sé la guerriglia di fake news sul vero sesso dell’atleta algerina – da sempre considerata una donna, a partire da lei stessa e dalla sua famiglia – così come sul fatto che fosse o non fosse davvero l’«Ultima cena» di Leonardo, con Gesù e gli apostoli, quella mimata da baccanti drag-queen e da un celeste Dioniso nello spettacolo parigino.

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Guerriglia – ci è stato spiegato – provocata direttamente dagli amici di Putin e ripresa prontamente dai Salvini, La Russa, e – con un minimo di attenzione linguistica – dalla stessa presidente del Consiglio italiana. Il nemico orientale omofobo e anti-lgbtqia+, in simpatia con le destre «Dio, patria e famiglia», contro l’Occidente liberale preda di se stesso e comunque aperto ai diritti inclusivi di sessi e sessualità non binarie.

A me – che non riesco a fare a meno di detestare la boxe, uomini o donne o altr* che siano a darsele, come si dice, di santa ragione – ha colpito che sia Imane Khelif sia Angela Carini, abbiano affermato di avere Dio dalla loro parte. E anche i rispettivi padri. Quello di Angela dall’al di là da cui la protegge e la consiglia. Quello di Imane che simpaticamente in questo al di qua tifa per la figlia.

Mi sembra quindi un segno del tempo che sulla Domenica del Sole24 ore Nunzio Galantino dedichi la sua ultima rubrica Abitare le parole al termine «queer». Dopo aver ricordato la storia di questa parola, da espressione dispregiativa verso persone «fuori norma» a simbolo della rivendicazione di diritti per «una identità fluida e inclusiva sessuale e di genere», il vescovo considerato vicino a Papa Francesco e già segretario della Conferenza episcopale italiana, indica il significato che gli sembra preferibile.

«Non mancano contesti culturali – scrive – nei quali compare un uso metaforico della parola queer. In essi queer sfida le categorie prestabilite e le aspettative sociali. Si fa strada così la presumibile ricchezza – oserei dire, bellezza – di questa parola, che sta essenzialmente nella sua apertura, nella sua flessibilità, e nello spingere a sperimentare uno sguardo obliquo, capace di descrivere un approccio inclusivo nei confronti di tutto ciò che è vita. Accogliendo l’invito di Emily Dickinson: “Di’ tutta la verità, ma dilla obliqua”».

Bella citazione.

Più modestamente segnalo che, da un punto di vista certamente diverso, anche Michela Murgia, nel suo libro postumo Dare la vita (Rizzoli, 2024) cerca di dare dei termini queer e queerness una valenza non di fissità identitaria, ma «legata al rifiuto di qualsiasi definizione che non sia praticata attraverso la non-definizione, il dubbio, la domanda. Questo non significa vivere in negazione; significa invece accettare che l’indeterminatezza, quando è programmatica e vissuta in riflessiva condivisione, sia una condizione di libertà».

Nella discussione sul sesso non più degli angeli ma degli atleti e atlete mi orienterei a questa verità “obliqua”: giusto cercare equità e eguaglianza, ma sapendo bene che al mondo esistono solo differenze.