Il destino nel nome. Sì, perché ci vuole un certo coraggio a portare il nome di Emmett in una città come Milwaukee cui il glorioso passato industriale, una motor town solo un po’ meno diffusa di Detroit, non ha impedito di essere tra i centri più segregati d’America. E quello, di nome, lega a sé un fantasma che ha impresso un’ombra indelebile nella memoria del Paese: la storia di Emmett Till, un ragazzino nero appena 14enne nato a Chicago che mentre trascorreva l’estate del ’55 presso i parenti nel Mississippi fu rapito, torturato e assassinato da alcuni bianchi. Ma l’Emmett la cui vicenda ricorda postuma lo straziante e al tempo stesso amorevole Milwaukee Blues di Louis-Philippe Dalembert (Sellerio, pp. 280, euro 16, traduzione di Francesco Bruno) ha trovato la morte ai giorni nostri e per mano della polizia. Come per George Floyd, il collo schiacciato dal ginocchio di un poliziotto, anche per lui le ultime parole sono state «I can’t breathe», non respiro.

L’UOMO CHE HA CHIAMATO il 911 per denunciare il cliente che gli aveva appena rifilato una banconota forse falsa, un pakistano che gestisce il minimarket di famiglia nel quartiere nero di Franklin Heights, non può cancellare quella scena dalle proprie notti insonni: il «sospetto» a terra e l’agente che gli tiene «il ginocchio premuto fra le scapole, come se fosse normale, come si fa con la pecora dell’Aïd, la Festa del Sacrificio, perché smetta di dimenarsi e di belare prima di essere sgozzata».

Non una storia vera perciò, ma talmente simile a quelle dei tanti afroamericani uccisi dalla polizia negli ultimi anni, dopo che per decenni erano stati dei bianchi spesso «ordinari» a difendere con il terrore la propria supremazia, da rendere il romanzo dello scrittore e poeta haitiano una sorta di testimonianza. Di ciò che è stato e di quanto, senza farsi troppe illusioni, potrà probabilmente ancora accadere. Di «un testimone intriso di amore e di ammirazione» per quanti soffrono i violenti sconvolgimenti del nostro tempo, parla non a caso Russel Banks a proposito di Dalembert che ha narrato in forma di denuncia poetica «i muri» che si levano nel Mediterraneo. In Milwaukee Blues l’empatia e la solidarietà verso chi è pronto a conservare la propria umanità a qualunque costo prende la forma di una vita che si ricrea, torna a manifestarsi attraverso i sentimenti e le parole di quanti la ricordano, di chi a quel nome ha affiancato parole e gesti d’amore.

Se Emmett è morto soffocato perché intorno al fermo di un uomo nero da parte delle forze dell’ordine in una qualunque strada degli Stati Uniti sembrano precipitare alcuni secoli di pregiudizi, paure, razzismo e impunità, la forma più alta di resistenza che la letteratura possa mettere in campo, sembra suggerire Dalembert, è restituire, intatta, l’intensità di quella vita annichilita, stroncata dall’abuso.

SE EMMETT È STATO UCCISO, è prima di tutto la sua storia che va raccontata. Così, dalle pagine di Milwaukee Blues, accompagnate da una lingua chiara che fatica a contenere la forza delle emozioni, sono l’ex maestra, bianca, la prima fidanzata, anch’essa bianca, e l’ultimo suo amore, l’allenatore che avrebbe voluto farne una stella del football, il compagno di giochi che crescendo si è dato da fare spacciando, Ma Robinson, una guardia carceraria riconvertitasi alle cose di Chiesa e punto di riferimento del quartiere a far rivivere le tappe di quell’esistenza stroncata dalla violenza. Sullo sfondo, decenni di storia americana fatta di sogni infranti ma anche di lotte che si rinnovano, dalle marce per i diritti civili a Black Lives Matter. E la consapevolezza che dietro ogni rifiuto, ogni uomo che deve temere lo sguardo di riprovazione degli altri, dietro la necessità di stabilire nuovi steccati c’è, come afferma la donna anziana che dopo una vita difficile sente di poter dare conforto alla propria comunità e lo fa con le parole della fede, il tentativo di negare a ciascuno di poter affermare con forza e tenerezza insieme «anch’io sono l’America».