In linea d’aria tra Lysychansk e Belgorod ci sono appena un centinaio di chilometri. La prima, città ucraina nel cuore di Luhansk, pieno Donbass; la seconda, città russa a due passi dal confine con il paese invaso dalle truppe del Cremlino 131 giorni fa.

NELLE ULTIME 48 ore sono state luogo militare e simbolico dell’andamento di una guerra sempre più incancrenita: Lysychansk è definitivamente caduta dopo il ritiro (strategico, dice Kiev) delle truppe ucraine, nelle stesse ore in cui missili ucraini piovevano su Belgorod uccidendo almeno tre persone, segno sia del netto miglioramento dell’arsenale bellico a disposizione del presidente Volodymyr Zelensky, rimpinguato dal sostegno occidentale, sia del tentativo di allargare il conflitto a casa dell’occupante.

Domenica sera lo stesso Zelensky ha spiegato la ritirata come ha spiegato le precedenti, da Mariupol a Severodonetsk: salvaguardare le vite di civili e soldati e costruire la controffensiva con nuovi armamenti.

«Se i comandanti dell’esercito ritirano la nostra gente da certi punti del fronte dove il nemico ha un grande vantaggio di fuoco, significa solo una cosa: che torneremo grazie alla nostra tattica e al rifornimento di armi moderne».

COME I MISSILI a lungo raggio, a cominciare dagli Himars statunitensi. La sconfitta però resta: con Lysychansk cade l’ultima roccaforte ucraina nella provincia di Lugansk, ora i russi possono concentrarsi sulla regione gemella, il Donetsk.

Con il 75% del territorio in mano russa, la conquista dell’intero Donbass è a un passo, uno degli obiettivi chiave dichiarati ufficialmente dal Cremlino dopo la palese rinunciare a marciare sulla capitale Kiev.

Ieri il presidente russo Putin non poteva, dunque, che congratularsi con le sue truppe per la «liberazione», la chiama così, di Lugansk, per poi dare ordine al ministero della difesa di proseguire nell’offensiva «secondo i piani approvati in precedenza».

Nella narrazione russa, la migliore risposta all’attacco su Belgorod: domenica Mosca ha accusato Kiev del bombardamento con tre missili della città di confine, casa a 400mila abitanti (secondo la portavoce del ministero degli Esteri Zakharova, azioni «non solo coordinate con gli alleati occidentali, ma probabilmente suggerite da loro»).

Una decina gli edifici danneggiati, tre le vittime, secondo il governatore della regione, Vyacheslav Gladkov. «Un atto diretto di aggressione, che richiede la più severa delle risposte, anche militare», il commento del deputato russo Andrei Klishas, che identiche parole non spende per gli attacchi russi.

EPPURE DOMENICA e di nuovo ieri hanno colpito a vasto raggio. Sei gli uccisi a Sloviansk, un hotel distrutto a Kramatorsk (nessun morto), una scuola colpita all’alba a Kharkiv (anche qui senza vittime). In contemporanea l’autoproclamata e filo-russa Repubblica popolare di Donetsk parlava di 15 attacchi ucraini e cinque morti.

Vittoria ucraina anche sull’Isola dei Serpenti, nel Mar Nero, dove domenica è tornata a sventolare la bandiera di Kiev. Ma i bombardamenti si immagina continueranno, rendendo più complesso il raggiungimento del prioritario obiettivo ucraino, usare l’avamposto marittimo per allentare il blocco russo dei porti.

Uno dei principali ostacoli, insieme alle mine posizionate dall’esercito ucraino, per rilanciare l’agognato export di grano verso il resto del mondo, a partire dai paesi che più di altri necessitano di riempire i silos, dall’Africa al Medio Oriente.

AL CENTRO di un fantomatico negoziato per settimane, il presidente turco Erdogan non è riuscito a far sedere nessuno al tavolo di Istanbul per il quadrilaterale alimentare (Turchia, Russia, Ucraina e Onu) annunciato due settimane fa.

Lontanissimo, quanto il più generale dialogo di pace. Ieri il consigliere del presidente ucraino, Podolyak, ribadiva le condizioni per il dialogo: «Cessate il fuoco. Ritiro delle truppe-Z. Ritorno dei cittadini rapiti. Estradizione dei criminali di guerra. Riparazioni. Riconoscimento della sovranità ucraina».