Mano di ferro in casa, Sheikh Hasina sul fronte internazionale ha giocato la carta dell’equilibrismo, con abilità. Se all’interno del Paese lascia soprattutto un’eredità di ingiustizie e disuguaglianze sociali, al prossimo governo a interim lascia invece dossier diplomatici tutt’altro che facili. E una tradizione: un disinvolto altalenarsi tra contrastanti interessi nell’area indopacifica, sfruttando la collocazione geografica del Paese, porta di accesso all’Asia meridionale.

UN RAPPORTO fondamentale ma problematico è quello con Washington, partner commerciale cruciale, primo destinatario delle esportazioni, in particolare del settore tessile, e grande fonte di investimenti nel Paese, al ritmo di più di 4 miliardi di dollari annui. L’amministrazione Biden ha provato ad alzare la voce negli ultimi due anni, di fronte ai ripetuti abusi del governo, e ha fatto del Bangladesh il banco di prova della sua politica estera fondata selettivamente sui valori democratici, come ribadito più volte dal segretario di Stato Antony Blinken. Ma non ha avuto sufficiente coraggio in occasione delle elezioni dello scorso gennaio, vinte da Sheikh Hasina grazie a brogli e intimidazioni, all’incarcerazione di massa di oppositori, esponenti politici e al controllo dei media. Rituali, infatti, le condanne retoriche successive, ma gli affari sono proseguiti, anche per timore che Sheikh Hasina finisse ancora più profondamente nell’orbita di Pechino. L’ambasciatore Usa Peter Haas, che ha lasciato Dacca da poche settimane, si è comunque attirato le critiche dei sostenitori dell’Awami League: tra loro, c’era chi ne chiedeva la morte, a causa delle sue posizioni.

PER SHEIKH HASINA, gli Usa avrebbero voluto orchestrare un cambio di regime, in occasione delle elezioni. Teorie cospiratorie riprese e alimentate da Pechino, che da anni sostiene lo status quo e che, per bocca del presidente Xi Jinping, allora si era detta pronta a «opporsi alle interferenze esterne». Anche rafforzando i commerci bilaterali, cresciuti da circa 3 miliardi a più di 20 in dieci/quindici anni. Pechino offre a Dacca anche investimenti in asset strategici, sostegno finanziario e tecnico. Cosa che New Delhi, rivale strategico di Pechino, non ha potuto fare, pur rimanendo il principale sostenitore esterno del governo dell’Awami League e di Sheikh Hasina, che con l’indiano Narendra Modi condivide la stessa concezione proprietaria, cosmetica e rituale della democrazia. A Dacca e nel resto del Bangladesh il risentimento verso l’India è cresciuto contestualmente all’opposizione ai metodi brutali di Sheikh Hasina, che ha irrobustito anche il rapporto con Mosca, le cui navi da guerra sono state ospitate nel porto di Chattogram.

VERSO HASINA la comunità internazionale, inclusa l’Unione europea, ha mostrato a lungo eccessiva cautela, anche a causa del dossier-Rohingya, la minoranza musulmana fuggita dal tentato genocidio per mano dei militari birmani e oggi rifugiata in Bangladesh. Portavoce della politica di non allineamento dei Paesi del “Sud del mondo”, per i governi dell’area la prima ministra costretta all’esilio era sinonimo di stabilità, fermezza sicurezza. E un’abile diplomatica, capace di giocare allo stesso tavolo con Washington e Mosca, con cui i rapporti sono molto buoni, con Pechino e con New Delhi, da dove sicuramente arriveranno pressioni per la formazione del nuovo governo a interim.