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Ci sono diverse ombre sulla produzione scientifica del ministro della salute Orazio Schillaci, l’ex-rettore dell’università di Tor Vergata chiamato da Giorgia Meloni a garantire la competenza alla compagine di governo.

Sono almeno otto le pubblicazioni scientifiche firmate dal ministro tra il 2018 e il 2022 nel campo dell’oncologia caratterizzate da anomalie evidenti. Si tratta di immagini di cellule esaminate al microscopio elettronico e «riciclate» in diverse pubblicazioni scientifiche internazionali per illustrare esperimenti diversi da quelli in cui erano state ottenute in origine.

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La duplicazione delle immagini per illustrare esperimenti mai realizzati è una delle manipolazioni più frequenti nei casi dimostrati di frode scientifica. Ma, è bene sottolinearlo, al momento è impossibile stabilire le eventuali responsabilità dirette del ministro in queste pubblicazioni sospette.

Certamente, nel suo ruolo di supervisore, toccava a lui vigilare sulla correttezza degli studi realizzati – anche con la sua firma – dal suo gruppo di ricerca. Dunque farebbe bene a chiarire i contorni della vicenda, ammesso che la guida del ministero gliene lasci il tempo.

Per la verità, Schillaci ha dimostrato un notevole talento per il multi-tasking. Pur svolgendo incarichi gravosi come quello di preside della facoltà di medicina, di rettore, di presidente della fondazione Policlinico di Tor Vergata e adesso di ministro, Schillaci non ha mai smesso di guidare il suo laboratorio universitario.

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La lista delle sue pubblicazioni negli ultimi anni è eloquente: secondo la banca dati Google Scholar risulta autore, insieme ai suoi collaboratori, di ben 44 pubblicazioni scientifiche nel 2019, l’anno in cui è diventato Rettore. Ha firmato altre 40 ricerche nel 2020, 30 nel 2021, 40 nel 2022 e una trentina (finora) nel 2023, interamente trascorso al governo: una ricerca ogni nove giorni, ferie e Consigli dei ministri inclusi, per un totale di oltre quattrocento pubblicazioni scientifiche nel suo invidiabile curriculum.

Tuttavia, dirigere un laboratorio universitario mentre si è indaffarati in tutt’altro rende difficile vigilare su errori o manipolazioni delle ricerche dei propri collaboratori. Il ministro però non può chiamarsi fuori nei casi contestati: in cinque casi su otto dichiara di essere stato il «supervisore», l’«ideatore», il «convalidatore» delle ricerche e di aver partecipato alla stesura delle pubblicazioni.

In quattro studi è anche il «corresponding author», generalmente il più esperto incaricato di spiegare i contenuti della ricerca ai colleghi o ai media. Solo in due pubblicazioni non viene specificato il contributo individuale degli autori alla ricerca.

Non si tratta di studi di poco conto: il Ministero dell’università e della ricerca ha appena dichiarato «di interesse nazionale» – con relativo finanziamento – un progetto di ricerca relativo agli stessi argomenti degli studi «sospetti» coordinato da Manuel Scimeca, uno dei collaboratori e co-autori delle ricerche di Schillaci.

Secondo le regole della comunità scientifica, indipendentemente dal ruolo, l’autore di una ricerca se ne assume integralmente la responsabilità, specie se si tratta del più alto in grado. È un principio stabilito ufficialmente dal Comitato internazionale degli editori di riviste mediche, che riunisce le principali testate accademiche internazionali del settore: ogni autore di uno studio è tenuto a garantire che «eventuali questioni relative all’accuratezza e alla regolarità di ogni parte della ricerca siano state adeguatamente affrontate e risolte».

La norma mira a responsabilizzare chi firma una ricerca scientifica, magari senza avervi contribuito come capita spesso nei baronati universitari. Secondo una pratica deleteria quanto diffusa, infatti, i docenti più potenti si arrogano il diritto di firmare ogni studio prodotto dal proprio gruppo di ricerca, prendendosene i meriti anche senza avervi contribuito.

Non è l’unico aspetto tossico del clima che si respira in molti laboratori universitari. Anche il dogma publish or perish, cioè «pubblica o muori», spinge i giovani ricercatori in condizioni contrattuali precarie a cercare scorciatoie pur di allungare il proprio curriculum e procurarsi nuovi finanziamenti.

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Sono i motivi per cui chi guida un gruppo di ricerca importante e numeroso deve farsi carico di errori e frodi commessi dai collaboratori. Gli esempi non mancano e riguardano anche premi Nobel e mostri sacri specialisti del doppio lavoro: poche settimane fa lo stimatissimo neuroscienziato e rettore della Stanford University Mark Tessier-Lavigne ha dovuto rassegnare le dimissioni a causa di quattro ricerche, anche in questo caso immagini, truccate realizzate dal suo team – probabilmente a sua insaputa – presso l’azienda privata Genentech, di cui Tessier-Lavigne era sia direttore delle ricerche che vicepresidente. Commentando le dimissioni, il direttore della rivista Science Holden Thorp ha denunciato la tendenza di molti scienziati a mantenere posizioni di responsabilità sia in ambito accademico che in campo amministrativo, politico o imprenditoriale.

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L’accumulo delle cariche secondo Thorp spiegherebbe molte degenerazioni odierne della comunità scientifica. «A nessuno piace veder smettere di crescere la propria produttività scientifica – ha scritto – e per uno scienziato è difficile rinunciare alla ricerca che si ama e in cui ci si identifica. Ma un incarico amministrativo di alto profilo è già abbastanza impegnativo di per sé».

Ogni ruolo di vertice richiede dunque una scelta netta tra la scienza e il potere. Forse è giunto il momento che anche Schillaci faccia la sua.