Una «mostruosità», la sentenza della Corte suprema. Così l’ha definita Eric Holder, ministro di giustizia nell’amministrazione Obama, una voce nel coro d’indignazione che si è levato dopo l’atteso pronunciamento sulla pagina più nera della storia Usa recente.

L’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Un’eversione tentata con la regia del presidente uscente Donald Trump, protagonista di un comizio incendiario poco lontano dal parlamento.

Sei giudici su nove hanno stabilito che – come afferma il Chief Justice Roberts – «gran parte delle comunicazioni pubbliche di un presidente verosimilmente ricadono comodamente nel perimetro esterno delle sue responsabilità ufficiali» anche se andrà ulteriormente indagato se quelle parole incriminate sono state dette nelle sue «vesti di candidato».

Quindi Trump non può essere incriminato per un discorso pubblico, a meno che non si provi che abbia parlato da candidato e non da presidente in carica. Quanto ci vorrà per sciogliere questo grottesco dilemma? Quale complicato percorso, in diverse sedi giudiziarie, dovrà seguire la decisione della corte suprema perché Trump e i giudici arrivino a una sentenza finale? Richiederà sicuramente abbastanza tempo per garantirgli di stare al riparo dai magistrati almeno fino al 5 novembre, quando, una volta eletto, avrà di nuovo lo scudo dell’immunità.

«Con il timore per la nostra democrazia, dissento», ha affermato la giudice Sonia Sotomajor autrice con le colleghe Elena Kagan e Ketanji Brown Jackson di un parere in dissenso, che definisce la sentenza un ampliamento dei poteri del presidente tali da renderlo «un re al di sopra della legge».

Sentenza mostruosa perché, di fatto, banalizza la devastante portata, per il sistema democratico stesso, di un’operazione dai chiari contorni di un tentativo di golpe e adesso aggiunge ulteriori inquietanti elementi di preoccupazione sulle sue conseguenze giuridiche e politiche, anche in vista di un ritorno di Trump alla Casa bianca. «Hanno passato a Donald Trump le chiavi per la dittatura», ha detto Quentin Fulks, numero due della campagna di Joe Biden.

E se non fosse eletto il 5 novembre, con la conseguenza che anche l’esito delle prossime elezioni potrebbe essere contestato da Trump, col sostegno dei suoi seguaci? L’ex-presidente, nel dibattito televisivo ad Atlanta, è sgusciato di fronte alla domanda ripetuta due volte della moderatrice Dana Bash, se accetterà il verdetto elettorale. «Solo se saranno elezioni eque, legali e buone», ha risposto, e tutti hanno capito che il film del 6 gennaio potrebbe ripetersi identicamente in caso di sconfitta. Questa volta con la copertura preventiva della Corte suprema, con una sentenza che infatti Trump saluta come una «grande vittoria per la nostra costituzione e la democrazia», «orgoglioso di essere americano!».

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Avvantaggiato dal ko che si è autoinflitto il suo avversario, giovedì scorso ad Atlanta, Trump può condurre lo scorcio finale della campagna presidenziale in condizioni di vantaggio anche psicologico, sfilando ai democratici l’arma che più d’ogni altra era considerata esiziale per colpire il candidato repubblicano.
Trump è avvantaggiato anche nella ricerca dei finanziamenti, dopo la sentenza della Corte suprema, avendo peraltro già raggiunto Joe Biden, che fino ad aprile scorso era in testa nella raccolta fondi.

Dopo il disgraziato duello il presidente in carica vede allontanarsi dalla sua campagna donor importanti, mentre il tycoon, con il sostegno degli amici togati, raccoglie nuovi sostegni. E consolida la sua leadership nel Partito repubblicano. Se ce n’era bisogno, la sentenza della Corte suprema allinea tutti i massimi esponenti del Grand Old Party dietro quello che in molti, fino a non tanto tempo fa, avrebbero volentieri voluto vedere cadere rovinosamente. Oggi Trump è il padrone assoluto del GOP, una forza politica totalmente assoggettata a lui e ai fanatici del suo movimento, il MAGA.

È la coesione di chi vede il proprio capo alla riconquista del potere – peraltro rafforzato enormemente dalla sentenza di ieri -e che contrasta con la frammentazione che riemerge in casa democratica, dove le conseguenze della disastrosa performance di Biden si fanno sentire, anche se discussioni e conflitti sono ancora mantenuti nella riservatezza.

Si attende una serie di sondaggi più “freddi” di quelli eseguiti subito dopo il dibattito. In effetti non si notano finora sbalzi rilevanti, con Trump in testa nel voto generale anche se di pochi punti. Bisognerà vedere se il quadro cambia al punto tale da imporre un serio ripensamento sulle possibilità di Joe Biden di percorrere l’ultimo tratto della corsa senza nuovi clamorosi inciampi, in presenza di un’osservazione ancora più minuziosa e ossessiva di ogni suo pur minimo movimento. Il quadro è comunque problematico, e l’immagine di un candidato in affanno si riverbera inevitabilmente sulla sua condizione di presidente in carica. La Casa Bianca non ha solo il fronte interno da “coprire” ma anche quello internazionale, dove ormai Biden è considerato un’anatra zoppa.