Con la sentenza che crea la sostanziale immunità del presidente, la Corte suprema degli Stati uniti ha messo un dito pesante sul piatto delle elezioni e sul futuro del paese. La maggioranza reazionaria, compresi tre togati designati dallo stesso Donald Trump, ha respinto la precedente decisione di un tribunale federale e decretato che lo stesso Trump non può essere giudicato per «atti ufficiali» intrapresi quando era carica. Il caso nasce dal processo intentato per il tentativo di sovvertire i risultati dell’elezione del 2020.

UN TRIBUNALE federale di Washington aveva confermato la legittimità delle accuse formalizzate dal procuratore speciale Jack Smith secondo cui, dopo aver perso le elezioni, Trump aveva promosso una campagna di disinformazione su presunti brogli e cercato di invalidare i risultati con ogni mezzo, compreso il tentativo in extremis di bloccarne la certificazione da parte del Congresso incitando una folla di sostenitori ad assalire il parlamento.

Il contrordine del massimo tribunale ha invece accolto il ricorso di Trump che invocava la «completa immunità» di un presidente in carica, le cui decisioni «non possono essere condizionate» dal «rischio di querele». Più precisamente la Corte crea per i presidenti una distinzione fra atti d’ufficio e atti «personali» (passibili invece di procedimento penale), ordinando alla giudice del processo di distinguere dettagliatamente fra le due categorie, un procedimento certosino, soggettivo e presumibilmente appellabile ad oltranza, che centra innanzitutto l’obbiettivo di ritardare i procedimenti al punto che sarà impossibile giungere al processo prima delle elezioni di novembre.

MA LA TATTICA dilatoria, cucita su misura per la campagna Trump, costituisce di fatto un precedente di enorme porta costituzionale e sancisce l’epocale distorsione istituzionale determinata dall’era trumpista. La sentenza è stata resa da giudici che comprendono Clarence Thomas, la cui consorte, Ginni, ha attivamente sostenuto l’insurrezione del gennaio 2021, e da Samuel Alito, che in quei giorni davanti casa ha issato i vessilli del movimento eversivo. Di fatto però la decisione crea, per la prima volta nella storia nazionale, una presidenza imperiale i cui unici limiti saranno posti dalla discrezione etica e dagli scrupoli morali del presidente in carica.

CONTEMPORANEAMENTE, la decisione pone le basi perché il primo ad usufruirne appieno possa essere l’uomo che ha pubblicamente dichiarato l’intenzione di assurgere a «dittatore nel primo giorno» di presidenza. Il primo atto di un Trump rieletto sarebbe certamente di ordinare al ministero di giustizia la cessazione di ogni procedimento a suo carico e, in sostanza, auto graziarsi. Sarebbe solo il primo di una presidenza immune ed insindacabile, che snatura fondamentalmente l’assetto dei poteri delineato dalla carta fondativa e rimette la Corte suprema al centro del mutamento politico in atto.

LA CONQUISTA conservatrice del massimo tribunale è stata portata a termine con il boicottaggio, da parte dei Senatori Gop, di una nomina che spettava ad Obama, quella per sostituire il reaganista Antonin Scalia nel 2016. Più di recente, Trump ha potuto invece selezionare ben tre nominativi dalla lista compilata dalla Federalist Society, associazione che funge come una sorta di “opus dei” della magistratura, stilando una lista di candidati dalle comprovate credenziali conservatrici. I sei giudici che compongono l’attuale super maggioranza reazionaria della Corte appartengono tutti a quella associazione. Tutti sono integralisti cattolici ed allineati con Trump.

LA SENTENZA di ieri, che grava pesantemente sulla decisione degli elettori, eliminando di fatto la possibilità che i procedimenti a carico di Trump possano completarsi prima delle presidenziali, rimuove ogni dubbio sul ruolo eversivo di questo tribunale, tutto il cui operato quest’anno ha costituito un esplicito assist al programma di un Gop radicalizzato. Solo la scorsa settimana, un’altra sentenza aveva di fatto rimosso il potere normativo delle agenzie federali preposte a regolare ogni ambito amministrativo, dalla finanza alla salute, clima e protezioni ambientali. Tutti aspetti che sono ora stati rimessi all’ambito giuridico in cui interessi privati ed industriali possono contrastare – e paralizzare – le norme governative nei tribunali. Una gigantesca “devolution” al capitale e l’implementazione de jure di quella «decostruzione dello stato amministrativo» inserita nel radicale programma repubblicano denominato Project 2025.

PRESE ASSIEME, le sentenze danno la misura della deriva ideologica della Corte. La sentenza di ieri è stata resa, ad esempio, nel cinquantesimo anniversario della decisione con cui la stesa corte, nel 1974, ordinò a Richard Nixon di consegnare alla commissione di inchiesta sul Watergate le registrazioni segrete effettuate nello studio ovale. Quell’atto, che avrebbe condotto alle dimissioni del presidente, rimane ad oggi celebrato come apoteosi della democrazia contro gli abusi di potere. Abusi che oggi la corte avvalla e rende inevitabili in futuro.
Controllato oggi da una setta politicamene oltranzista, il terzo ramo del governo, composto da giudici non eletti, incaricati a vita e senza norme auto disciplinari (come dimostrato dagli scandali che li hanno recentemente investiti), si è dato da ieri un ruolo primario nella potenziale conversione degli Stati uniti in regime post-democratico. E nella decostruzione di una democrazia che da oggi è dimezzata.