Ieri Donald Trump ha incassato un’altra “vittoria”, prontamente celebrata sulla sua piattaforma Truth Social. La Corte suprema ha infatti emesso la sentenza in Fischer v. Unites States, il caso che metteva in discussione l’incriminazione per «ostruzione di procedimenti ufficiali» impiegata contro 350 dei 1.430 imputati (condannati, a processo o in attesa di giudizio) per l’attacco al Campidoglio del 6 gennaio 2021. Tra i quali lo stesso Donald Trump.

COME SPESSO accade, la gravità delle conseguenze della sentenza rischia di perdersi nella complessità del procedimento davanti alla Corte. Fischer, ex poliziotto che ha preso parte al 6 gennaio, contestava attraverso i suoi legali che la legge impiegata per incriminare lui e molti altri (e che prevede una pena massima a venti anni di carcere) fosse attinente al caso. Era nata infatti per porre un rimedio al tentativo di far sparire i documenti che provavano le frodi commesse dalla compagnia energetica Enron dopo gli scandali – e la sua dissoluzione – dei primi anni 2000. Impiegata invece dai procuratori federali per sostenere che alcuni dei rivoltosi abbiano attivamente cercato di impedire, quel 6 gennaio 2021, la certificazione della vittoria elettorale di Joe Biden.

La sentenza, secondo la quale questa incriminazione non era ammissibile a causa della distanza della legge dalla materia trattata dalla pubblica accusa, è stata emessa con l’ormai frequente voto 6 a 3, ma con una significativa differenza: la giudice conservatrice Amy Coney Barrett – l’ultima delle tre nomine di Donald Trump – ha votato con le liberal Sonia Sotomayor e Elena Kagan, mentre la nomina di Biden Ketanji Brown Jackson ha votato con i giudici reazionari. Tra i quali Samuel Alito e Clarence Thomas, che secondo molti avrebbero dovuto ricusarsi: la moglie di Thomas, Virginia, ha preso attivamente parte al tentativo di ribaltare il risultato elettorale del 2020, mentre in ben due delle case di Alito e sua moglie Martha Ann sventolavano bandiere con chiari simboli trumpisti.

«Sono deluso dalla decisione di oggi» della Corte suprema, ha affermato il procuratore generale degli Usa Merrick Garland. «Limita un importante statuto federale che il dipartimento (di Giustizia, ndr) ha impiegato per assicurarsi che la maggioranza dei responsabili dell’attacco vada incontro a conseguenze appropriate». «Grandi notizie!», ha scritto invece l’ex presidente golpista Donald Trump su Truth Social. La decisione «è un’enorme vittoria per i prigionieri politici del 6 gennaio».

SOLO 27 RIVOLTOSI sono incriminati unicamente sulla base di questa legge, e le implicazioni per il caso che riguarda Donald Trump sono ancora da comprendere fino in fondo. Di certo sarà molto più importante, per la possibilità di mettere l’ex presidente davanti alle conseguenze delle sue azioni, l’imminente decisione della Corte suprema sulla sua immunità nel processo per il tentato golpe. Potrebbe arrivare lunedì, dopo un lungo stallo ordito dai giudici conservatori per fare in modo che non ci sia una sentenza prima delle elezioni di novembre.