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L’orrore di una vita vicino agli allevamenti

Un abitante della Pianura Padana indossa una maschera a causa dei cattivi odori provenienti dagli allevamenti intensivi - S.Magnolia GattiUn abitante della Pianura Padana indossa una maschera a causa dei cattivi odori provenienti dagli allevamenti intensivi – S.Magnolia Gatti

Reportage In Europa si allevano 142 milioni di suini, 76 di bovini, 62 di pecore e 11 miliardi polli. Viaggio nelle zone «malate» in Italia, Danimarca, Spagna e Polonia. Cattivi odori, tossicità nell’aria, malattie, inquinamento delle acque: tutto ciò fa ammalare chi abita vicino agli animali

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 27 giugno 2024

Benvenuti nell’Antropocene. Questo è il nome, suggerito dalla comunità scientifica, dell’era geologica che stiamo attraversando, il cui segno caratteristico più gettonato e rappresentativo della presenza umana sul pianeta sarebbero le ossa di pollo, onnipresenti, disseminate ovunque. 142 milioni di suini, 76 milioni di bovini, 62 milioni di pecore, 12 milioni di capre, oltre 11 miliardi di polli: questa è la popolazione degli animali invisibili allevati in Europa ogni anno, che nascono e muoiono all’interno di una enorme catena di montaggio e smontaggio.

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L’ALLEVAMENTO INTENSIVO, il metodo predominante in Europa come nel mondo di produzione di carne, latticini e uova che arrivano sulle nostre tavole ogni giorno, è riconosciuto all’unanimità come uno dei settori industriali più inquinanti al mondo nel 2024, responsabile di circa il 15% del totale delle emissioni di gas serra. Tuttavia, l’impatto degli allevamenti sull’ambiente immediatamente circostante rimane relativamente inesplorato.

A PARTIRE DAGLI ANNI ‘80, l’intero settore ha subito una profonda trasformazione, con una crescita ad andamento velocissimo verso allevamenti enormi e specializzati. Capannoni lunghi, immensi, sterili, in fila uno di fianco all’altro e costellati di alti silos e rumorosi ventilatori alle estremità, dominano sempre di più il paesaggio rurale di tutta l’Europa.

NELLA CAMPAGNA della Pianura Padana, la casa di Giorgio Beccati non è più un luogo di pace. L’aria rurale di un tempo è ora contaminata dal fetore di ammoniaca, un sottoprodotto degli allevamenti intensivi che sono sorti e cresciuti a tappeto in tutta la valle del Po. «Ho perso mia moglie a causa di un’infezione che nessun antibiotico ha potuto curare. Da quel giorno la mia vita è cambiata, e la colpa è dell’aria insalubre che ci circonda», testimonia Giorgio. «Con gli allevamenti intorno a me, i miei nipoti non vengono più a trovarmi. E io sto costantemente male. A volte l’odore è insopportabile. In quei momenti mi sento come se stessi morendo. Vomito e perdo conoscenza. Devo indossare una maschera, altrimenti sono in pericolo. Gli odori stanno distruggendo la mia salute e la mia vita». Recentemente riconosciuta come la regione con l’aria più inquinata d’Europa, la Pianura Padana ha densa concentrazione a tappeto di allevamenti intensivi, che ha trasformato la vita quotidiana in una lotta. Molti residenti soffrono di mal di gola, bruciore agli occhi, nausea e difficoltà respiratorie. L’ambiente intorno a loro è contaminato.

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LA STORIA DI GIORGIO, e quella dei suoi vicini, è tutt’altro che un caso isolato. Nella regione spagnola di Murcia, Merchora Martinez vive a soli 39 metri da un grande allevamento di maiali di proprietà di un familiare. Da quando l’allevamento si è espanso e Merchora ha lamentato problemi respiratori a causa dell’ammoniaca, il loro rapporto si è irreversibilmente distrutto. Merchora soffre di gravi sintomi simili all’asma e mal di testa che peggiorano quando l’odore dell’allevamento è particolarmente forte, spesso causandole vomito. La donna è cronicamente depressa, e nel racconto della sua convivenza forzata con i capannoni accanto a casa non trattiene le lacrime.

ODORI, RUMORE, TOSSICITÀ NELL’ARIA, malattie croniche, inquinamento dell’acqua: gli allevamenti intensivi proiettano ombre di tossicità che si abbattono prima di tutto su ciò e chi sta più vicino. Non importa dove: persone di luoghi lontani in Europa, con poco in comune se non il fatto di vivere nei pressi di questi stabilimenti, convivono con gli stessi problemi che le tormentano.

GLI ODORI SONO INSOPPORTABILI QUASI quotidianamente vicino agli allevamenti intensivi, che trasformano semplici gesti o piaceri della vita, come dedicarsi al giardinaggio, stendere i panni puliti all’aperto, o semplicemente aprire una finestra, in una sfida costante. Amici e parenti non vengono più in visita, scoraggiati dal fetore persistente, mentre alcuni residenti vedono i loro alberi appassire, vittime anche loro della grave contaminazione, mentre guardano il mondo dalle loro finestre sempre chiuse.

«MANCA L’ARIA». MA I PROBLEMI NON SI LIMITANO alla vita quotidiana. Se l’aria diventa cattiva, qualche volta durante la settimana ma spesso anche tutti i giorni, compaiono sintomi come difficoltà respiratorie, mal di testa, nausea e tosse persistente, bruciore agli occhi. Secondo l’Istituto per la Difesa delle Risorse naturali, il solfuro di idrogeno prodotto dal letame degli animali negli allevamenti intensivi, come anche l’ammoniaca, possono causare sintomi simil-influenzali come prima reazione, o diventare importanti fattori di rischio per malattie croniche, talvolta degenerative, se l’esposizione è prolungata nel tempo. L’impatto potenziale sulla salute umana a lungo termine è molto preoccupante, eppure poco investigato. «Ho sviluppato l’asma dopo dieci anni che vivo qui», spiega Ans van Maris, che abita a Deurne, una delle regioni con la più alta densità di allevamenti industriali nei Paesi Bassi. «Non posso stare in giardino quando c’è puzza, e puzza praticamente sempre. Quindi resto molto in casa». Quando la qualità dell’aria peggiora, deve prendere medicine più forti rispetto a quelle che prende quotidianamente per l’asma. «Quando vado lontano da qui, mi sembra di poter respirare di nuovo». Ans è stata esclusa da alcuni eventi sociali per aver parlato apertamente contro la comunità di allevatori della sua zona. Casi di intimidazione e isolamento, a seguito di lamentele o denunce pubbliche, non sono rari. «Parlo perché la mia salute e quella delle altre persone non dovrebbe essere più importante di un capannone per maiali?».

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L’INALAZIONE DELLE SOSTANZE TOSSICHE provenienti dagli allevamenti intensivi e lo sviluppo di malattie respiratorie croniche come l’asma o la broncopneumopatia cornica ostruttiva (Bpco) sono collegate. L’ammoniaca, ampiamente presente negli allevamenti intensivi, è pericolosa. Il letame crea ammoniaca quando i batteri decompongono i composti azotati, come l’urea, rilasciando gas di ammoniaca nell’aria e contribuendo all’inquinamento. Il settore agricolo, responsabile del 93% delle emissioni di ammoniaca, è la principale fonte di inquinamento per questa sostanza in Europa. Quando viene rilasciata nell’atmosfera, l’ammoniaca reagisce con altre sostanze presenti nell’aria e si trasforma in particolato fine PM10 ma soprattutto PM2.5, un elemento particolarmente dannoso per la salute umana e recentemente collegato a malattie cardiache e respiratorie. Il PM2.5 è oltretutto riconosciuto dalla comunità scientifica come una sostanza cancerogena di gruppo 1, il più pericoloso, con una mortalità associata di circa 253.000 casi ogni anno solamente in Europa. Sempre più letteratura indica tassi di cancro più elevati nelle regioni a forte concentrazione di allevamenti intensivi.

LA CONTAMINAZIONE DELLE ACQUE. Gli allevamenti intensivi possono inquinare anche le acque superficiali, o le risorse idriche destinate al consumo umano. Il settore agricolo è responsabile dell’80% dell’inquinamento da azoto nell’acqua, che lì si trasforma in nitrati, una sostanza notoriamente pericolosa già da diversi decenni, sia in termini di disastri ecologici che per la salute umana. «I pozzi contaminati da nitrati si trovano sempre in aree agricole e la fonte principale sono i fertilizzanti e il letame», spiega Cristina Vilanueva, esperta di qualità dell’acqua e salute presso l’istituto ISGlobal in Spagna. «Una volta che un pozzo è contaminato, è molto difficile ripulirlo».

SECONDO UN RECENTE STUDIO DANESE, già 4 milligrammi di nitrati per litro di acqua potabile basterebbero per un aumento del rischio di cancro al colon e al retto. Tuttavia il limite di 50 mg/l per la sicurezza dell’acqua potabile stabilito negli anni ’80 dall’Unione Europea non è stato mai modificato. Inoltre, «ci sono sempre più studi che suggeriscono che questa soglia potrebbe non essere sufficientemente bassa per una lunga esposizione», ha detto Vilanueva.

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IN SPAGNA, LA CONTAMINAZIONE da nitrati ha lasciato più di 200.000 persone senza acqua, secondo il Ministero della Salute spagnolo. A Huesca, l’acqua del rubinetto di Cristina de la Vega ha spesso livelli di nitrati di 140 mg/l. «Ho smesso di bere l’acqua di casa mia nel 2017. Ogni volta che vado a fare la spesa devo ricordarmi di comprare bottiglioni d’acqua in quantità», dice. La donna vive in una delle molte aree in Spagna che sono state dichiarate vulnerabili alla contaminazione da nitrati, l’acqua non può essere utilizzata per bere né per cucinare. Il 37% delle acque sotterranee in Spagna è già interessato dalla contaminazione da nitrati, mentre i cittadini e i comuni devono trovare modi alternativi per portare l’acqua nelle case.

LA PROLIFERAZIONE DI PATOGENI ED EPIDEMIE E gli animali? Polvere, oscurità, oppure luce artificiale costante, chiasso assordante, tanfo irrespirabile, assenza di spazio vitale e sovraffollamento, contatto con gli escrementi, malattia, abusi: questa è la condizione degli animali che vivono all’interno degli allevamenti intensivi. Basti pensare che i polli di un allevamento intensivo hanno tipicamente a disposizione meno di un foglio A4 di spazio per il movimento ciascuno, mentre le scrofe da gestazione sono segregate all’interno di gabbie per il parto e l’allattamento che non permettono loro nemmeno di girarsi su se stesse.

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LE CONDIZIONI NECESSARIE perché questi (eco)sistemi di produzione intensivi siano efficaci, sono chiare: sovrappopolazione di individui stipati all’interno di spazi ristretti, temperature costanti ed elevate, condizioni igienico-sanitarie drammatiche. Condizioni che non solo rendono infernali le vite in schiavitù industriale degli animali, ma, in un’era caratterizzate da nuove epidemie e pandemie, costituiscono anche un ambiente perfetto, senza pari in natura, per la proliferazione di patogeni. L’uso estensivo di antibiotici, sebbene sia diminuito in Europa, favorisce la resistenza batterica, una minaccia molto seria sia per la salute degli animali che per quella umana.

IL RUOLO DEGLI ALLEVAMENTI INTENSIVI è indiscusso nello sviluppo di focolai di ceppi influenzali come l’influenza suina H1N1 e l’influenza aviaria H5N1, o di malattie come la peste suina africana e la febbre Q, che, in alcuni casi, possono essere trasmesse all’uomo. Inoltre, gli allevamenti contribuiscono alla comparsa di agenti patogeni di origine alimentare come la Salmonella e l’E.Coli, o alla diffusione del batterio MRSA, resistente agli antibiotici, associato al bestiame. Nel caso della recente pandemia di Covid-19, secondo sempre maggiori fonti autorevoli ci sarebbe stata una maggiore incidenza della malattia in regioni dense di allevamenti intensivi.

NEL 2022, 67 PAESI HANNO segnalato focolai di influenza aviaria H5N1, che hanno portato alla morte o all’abbattimento di massa di oltre 131 milioni di polli. La malattia ha continuato a diffondersi nel 2023, colpendo altri 14 paesi. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) sottolinea il ruolo dell’allevamento ad alta densità nella trasmissione della malattia e la necessità di misure rigorose di sorveglianza. Le infezioni umane, seppur rare, sono sempre gravi, e si teme il rischio che il virus H5N1 muti, consentendo la trasmissione da persona a persona.

QUINDICI ANNI FA, I PAESI BASSI hanno vissuto un grave focolaio di febbre Q, una malattia infettiva causata dal batterio Coxiella Burnetii proveniente da animali da allevamento come capre, pecore e bovini. Dal 2007 al 2010, sono stati segnalati oltre 4.000 casi umani, principalmente in aree con alta densità dei suddetti allevamenti, con almeno 116 decessi. Philip Kemp era un tecnico per l’installazione e la manutenzione dei macchinari per la mungitura in vari allevamenti intensivi quando ha contratto il batterio della febbre Q, e ha inconsapevolmente, agendo come vettore, infettato la moglie, le due figlie, e la nipotina non ancora nata 14 anni fa.

AD OGGI, TUTTI SONO VITTIME della sindrome da stanchezza cronica derivante dalla febbre Q. La ragazzina non ha mai conosciuto la vita senza il senso di fatica costante. Philip, 74 anni, racconta di avere, tra altri sintomi invalidanti che accomunano tutta la famiglia, «dolore in tutto il corpo ogni giorno. Quando cammino mi sembra di camminare su pezzi di vetro rotto».

PETER VAN SAMBEEK VIVE A HERPEN, a solo un chilometro dall’allevamento di capre da cui probabilmente è iniziato il focolaio di febbre Q. A 51 anni appare in forma, ma le apparenze ingannano. «Sono sempre stanco e ho sempre dolore», spiega Peter. Ci sono voluti quattro anni prima che i medici si rendessero conto che era affetto dal batterio della febbre Q. «Stavo impazzendo. Fino alla diagnosi, mi dicevano che era tutto nella mia testa». Alcune persone nella sua condizione ricorrono all’eutanasia. A Herpen il 60% della popolazione mostra reazioni autoimmuni contro il batterio della febbre Q, fattore di rischio anche per malattie cardio circolatorie. A 17 anni dal contagio, Peter soffre ancora e ha dovuto sottoporsi a un complicato intervento di cardiochirurgia.«Anche la mia memoria sta peggiorando. Dormo spesso ogni giorno. Ho perso il 70% della mia vita».

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NON C’È VIA DI FUGA. Nella città polacca di Kuczbork-Osada, i valori degli immobili situati in prossimità degli allevamenti intensivi sono crollati fino all’80%, lasciando i residenti intrappolati e disperati. In Polonia, il più grande produttore ed esportatore di pollame in Europa che produce oltre 2,6 milioni di tonnellate carne di pollo all’anno, solo nella città di Zuromin, risalente al Medioevo e ora conosciuta come «la città dei polli», si producono almeno 80 milioni di polli all’anno. Anche qui i residenti vicini ai macro allevamenti, bloccati tra odori sgradevoli e angoscia, impossibilitati ad andarsene, stanno male.

IN UN’ALTRA PARTE DELLA POLONIA, Agnieszka Białochławek, una poliziotta di Domaszkowice, vive vicino a un allevamento di maiali. «Ho incubi in cui non riesco a respirare, e mi sveglio terrorizzata con le mani alla gola che brucia, gli occhi che mi lacrimano e un’aria irrespirabile». La donna ha passato il periodo della gravidanza a documentare l’impatto ambientale dell’allevamento di maiali vicino a casa, conclusa con un parto prematuro. Suo figlio ha difficoltà respiratorie, e secondo lei è l’allevamento intensivo il responsabile dei loro problemi. Molti non vogliono abbandonare la propria dimora, e vogliono lottare per un futuro migliore. Molti altri semplicemente non possono permettersi di fuggire altrove. Dopotutto, chi acquisterebbe una casa vicino a un allevamento?

IN UN’ATMOSFERA DENSA DI ODORI soffocanti, paura e vigilanza reciproca, rabbia, senso di abbandono e talvolta intimidazioni, gruppi di persone in tutta Europa sono costrette a trovare delle strategie di resilienza nella loro vita quotidiana di fianco ai grandi capannoni pieni di animali invisibili. Questa lotta contro un sistema insostenibile non è solo una questione di sopravvivenza: forse è giunta l’ora di immaginare un futuro in cui la terra, gli animali e le persone possano prosperare armoniosamente, liberi dall’ombra degli allevamenti intensivi.

Journalismfund Europe

* grazie al supporto di JournalismFund Europe e WeAnimals Media.

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