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Prove di alleanza tra banlieue e testa del corteo

Bobigny In piazza si è verificato l'incontro fra quelli che subiscono l’arbitrio poliziesco ogni giorno, ed erano la maggioranza, e quelli che lo subiscono ogni volta che si rivoltano, e non erano pochi

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 14 febbraio 2017

«Vedo facce di persone che non sono controllate tutti i giorni come noi: grazie per la vostra presenza»: ringraziamenti a parte, dal momento che essere là era il meno che si potesse fare, questa frase pronunciata da uno degli oratori merita di essere citata perché riassume un’alleanza che ha iniziato ad abbozzarsi a Bobigny, sabato scorso. L’alleanza fra chi talvolta si espone all’arbitrio da parte delle forze dell’ordine perché afferma un disaccordo radicale con quanto esse difendono; e chi invece agli abusi della polizia è esposto per nascita. Infatti, una cosa è rischiare di essere controllati, gassati, percossi, accecati, anche uccisi perché si manifesta la propria opposizione con più o meno vigore, l’altra, ben più dolorosa, è essere esposti al medesimo rischio semplicemente perché si è nati in una certa zona, in un certo ambiente socioculturale. Come succede a Théo, Adama, Zyed e Bouna.

Tutto si è svolto in un parco, sotto la passerella Marie-Claire, eroina suo malgrado di un processo per aborto che nel 1972 avrebbe aperto la strada alla depenalizzazione dell’interruzione di gravidanza. Come il municipio, il tribunale civile di Bobigny ha la particolarità di assomigliare a una moderna fortezza, la cui massa offre pochi accessi controllati. La passerella di accesso al palazzo destinato a incarnare la giustizia che si reclamava per Théo era chiusa da forze dell’ordine armate fino ai denti: come stupirsi se qualcuno ha voluto forzare il blocco in quel luogo dedicato per coincidenza a una ragazza che aveva in comune con Théo l’origine proletaria e il fatto di essere stata vittima di uno stupro.

Sgombriamo intanto il campo dalle notizie menzognere: chi ha cominciato a prendersela con la polizia sulla passerella Marie-Claire non erano alcune decine di persone, come ha sostenuto le Parisien, ed esterne al raduno, come ha sostenuto le Monde. Erano invece una delle componenti importanti del movimento, e completamente mescolate con la folla di migliaia di persone di tutte le età e provenienze (la cifra di duemila dichiarata dalla prefettura può tranquillamente essere raddoppiata) che occupavano il parco dove avrebbero dovuto rimanere confinate. E quello che ha straripato, prendendo la forma delle sassaiole contro la polizia, delle vetrine spaccate e dell’incendio di cassonetti e automobili, erano tanto i corpi, corpi stanchi di battere i piedi per terra nel freddo umido e nell’immobilità forzata, che due passioni condivise da tutti. Le stesse due passioni che la primavera dell’anno scorso animarono le strade delle grandi città francesi: la gioia e la collera.

Le ragioni della collera sono state espresse, in genere molto bene, dalle oratrici e dagli oratori che si alternavano su un palco improvvisato: chi incitava la folla a scandire il ritornello «tutti detestano la polizia», chi ha parlato dei due milioni di donne congolesi violentate in questi ultimi anni da delinquenti al soldo dei datori di lavoro di chi occupava la passerella.

Il grido «justice pour Théo» (giustizia per Théo) si associava di continuo alla denuncia di altri crimini della polizia: lo stupro razzista di quel ragazzo sembra la goccia che fa traboccare il vaso, l’ultimo abuso; come era stata l’anno scorso la legge el-Khomry (modifica peggiorativa del Codice del lavoro, presentata dalla ministra Myriam el-Khomry, ndT). Per non parlare dell’ignominia finale, la polizia delle polizie, la polizia al quadrato, che si arroga poteri perfino sul significato delle parole, inventando lo stupro accidentale.

Quanto alla gioia, l’abbiamo vista sui volti delle manifestanti di banlieue quindicenni; le quali, quando ho fatto loro notare che per fare quello che stavano facendo era meglio coprirsi la faccia, mi hanno risposto con un «chissenefrega» così deciso che non c’era niente da aggiungere. La gioia era anche quella dei saccheggiatori del Franprix (supermercato) ridenti, le braccia cariche di bottiglie di whisky e champagne, uno spettacolo fatto per rassicurare l’opinionista Finkelkraut e i suoi sodali: non tutti i discriminati sulla base della razza sono musulmani. (…) La ragione di questa gioia che si sentiva serpeggiare fra i presenti fin dall’inizio, quando si era ancora agli interventi, era nell’essere insieme, nell’incontro fra quelli che subiscono l’arbitrio poliziesco ogni giorno, ed erano la maggioranza, e quelli che lo subiscono ogni volta che si rivoltano, e non erano pochi.

Questi ultimi, saggi attivisti o potenziali rivoltosi arrabbiati, sanno bene che è solo alleandosi con i primi che la loro pratica politica avrà qualche chance di sfociare in qualcosa. E al tempo stesso i primi, abitanti delle banlieues sollevatisi davanti alla violenza subita da Théo e dagli altri, constatavano che la loro marginalità politica stava forse perdendo colpi. Dunque, non c’era da stupirsi se tutti si rallegravano per questo inizio di fusione fra la rivolta delle banlieues e la testa del corteo.

*scrittore francese, attivista e militante, autore, tra gli altri, dei romanzi polizieschi Y, Rue de la Cloche, In fondo agli occhi del gatto

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