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Prolungato il fermo di Ahmed Abdallah al Sheikh

Prolungato il fermo di Ahmed Abdallah al Sheikh

Egitto Il consulente della famiglia Regeni è accusato di reati gravissimi. Ma la procura egiziana smentisce che la detenzione sia legata in qualche modo al rapporto tra al Sheikh e i genitori del ricercatore italiano assassinato

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 28 aprile 2016

La detenzione di Ahmed Abdallah al Sheikh «non è legata alla famiglia di Giulio Regeni». La procura egiziana alza la voce dopo l’allarme lanciato dai genitori dello studente italiano – rapito, torturato e assassinato al Cairo – per l’arresto del responsabile della Commissione Egiziana per i diritti e le libertà (Ecfr), da due mesi consulente della famiglia Regeni. Al Sheikh, spiegano i giudici egiziani è stato portato in commissariato perchè accusato di «partecipazione a manifestazioni non autorizzate». Quindi, fanno capire, per questioni “normali”. Già perchè in Egitto è “normale” finire in manette, essere processato e condannato ad anni di carcere per aver partecipato o soltanto appoggiato manifestazioni di protesta o in difesa dei diritti umani. Ne sa qualcosa uno storico attivista, Alaa Abdel Fattah, da tempo dietro le sbarre.
L’instancabile procura del Cairo nel frattempo ha prolungato da 4 a 15 giorni il fermo di Al Sheikh, contro il quale crescono con il passare delle ore i capi d’imputazione. Se all’inizio, come si è detto, l’arresto è stato ordinato perchè il consulente della famiglia Regeni avrebbe appoggiato le manifestazioni del 25 aprile contro la cessione delle isolette di Tiran e Sanafir all’Arabia saudita, adesso le accuse parlano di istigazione a disordini con l’obiettivo di rovesciare le «legittime autorità» (golpiste), di pubblicazione di notizie false e persino di minaccia alla pace sociale, all’ordine e all’interesse pubblico. Insomma, un mostro da sbattere subito in galera. Proprio come Haytham Mohammedin, avvocato e portavoce del Movimento rivoluzionario socialista (Mrs), arrestato il 22 aprile, tenuto bendato durante gli interrogatori e portato dopo più di 24 ore di fronte a un giudice che ne ha convalidato la detenzione per altri 15 giorni con le accuse di «tentativo di rovesciare il governo», «convocazione di proteste contro la ridefinizione della frontiera marittima del paese» e «adesione al gruppo fuorilegge della Fratellanza musulmana». Accusa assurda quest’ultima se si tiene conto della enorme differenza ideologica tra il Mrs, di cui Mohammedin è portavoce, e l’organizzazione islamista dichiarata fuorilegge dopo il golpe militare di tre anni fa.
Ahmad Abdallah al Sheikh e gli altri oppositori sono descritti dai media legati al regime come dei traditori, dei terroristi travestiti da difensori dei diritti umani se non addirittura delle spie al servizio di potenze straniere desiderose di colpire e ridimensionare il “ruolo” dell’Egitto nella regione. Un “attacco” che, spiegano tv, radio e giornali che osannano al Sisi, è rappresentato proprio dalla dimensione internazionale che ha assunto l’assassinio di Giulio Regeni, che ormai va oltre le relazioni tra Egitto e Italia. Il Cairo con questo atteggiamento conferma, nei fatti, ogni giorno di più, di non avere alcuna intenzione di rivelare la verità che tanti chiedono. Il regime di al Sisi è sprezzante verso chi mette in dubbio la verità ufficiale, quella costruita a tavolino per negare il coinvolgimento dei servizi di sicurezza nazionali nell’omicidio del giovane italiano. Al governo britannico che ha condannato l’assassinio «brutale» di Regeni e che ha detto di essere irritato per i limitati progressi fatti fino ad oggi nella soluzione del caso, la presidenza egiziana ha replicato chiedendo a Londra di fare luce sulla morte di un cittadino, Sherif Habib, 21 anni, trovato ucciso nei giorni scorsi all’interno di un’automobile data alle fiamme. «La famiglia di Habib ha il diritto di sapere le cause della sua morte e che sia fatta giustizia», sottolinea il comunicato ufficiale egiziano. Giusto, è una richiesta legittima che, allo stesso tempo, non può diventare un pretesto per il regime di al Sisi per sottrarsi all’obbligo di rivelare la verità sull’assassinio di Giulio Regeni.
Il regime è unito e compatto dietro Abdel Fattah al Sisi. È talmente evidente che risultato incomprensibili le teorie rilanciare anche in questi giorni da alcuni importanti media italiani che inseriscono le torture e la morte di Regeni nel quadro di una presunta lotta tra apparati di sicurezza egiziani, tra alleati e nemici del presidente-dittatore. Mentre questi giornali avanzano ipotesi e fanno congetture sulle “lacerazioni” interne al regime, al Sisi ieri ha inaugurato al Cairo il braccio armato della sua brutale autorità: la nuova sede del ministero dell’interno. Accompagnato dal premier Sherif Ismail, dal ministro della sifesa Sedki Sobhi e dal suo fedelissimo, il ministro dell’interno Magdy Abdel Ghaffar, al-Sisi ha visitato con espressione soddisfatta i nuovi edifici che, con umorismo nero degno dei migliori attori britannici, include anche un dipartimento per i diritti umani.

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