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Processo Sankara, chiesti 30 anni per Compaoré

Processo Sankara, chiesti 30 anni per CompaoréMariam Sankara nell'aula del tribunale militare di Ouagadougou – Ap

Burkina Faso L'ex presidente processato in contumacia dopo la sua fuga in Costa d'Avorio. Per il generale Dienderé, già in carcere con una condanna a 20 anni per il golpe del 2015, la richiesta è di altri 20. A marzo il verdetto

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 9 febbraio 2022

Il processo contro i presunti assassini dell’ex presidente Thomas Sankara – conosciuto anche come “il Che Guevara africano” – ucciso insieme ad altre 12 persone durante il colpo di stato del 15 ottobre 1987, è entrato nella fase cruciale con le richieste di condanna da parte dei magistrati della Procura militare e i verdetti finali, previsti per il mese di marzo.

Nel suo discorso di insediamento, dopo il golpe di 15 giorni fa, il neo-presidente, tenente-colonnello Paul-Henri Damiba – leader del Movimento Patriottico per la salvaguardia e la restaurazione (Mpsr) – ha indicato di volersi ispirare «proprio agli ideali di Sankara» e ha ribadito l’importanza di questo processo come un tassello fondamentale per la storia del paese. Ieri ha invitato i ministri del deposto governo a «privarsi di tutti i benefici di stato e a lasciare le loro residenze di lusso» in capo a 72 ore.

Cominciato l’11 ottobre 2021 – dopo un’attesa di oltre 34 anni – con la presenza di 12 dei 14 imputati, il processo nell’udienza di ieri ha ribadito le responsabilità dei principali mandanti ed esecutori materiali dell’assassinio di Sankara: l’ex-presidente Blaise Compaoré al potere fino al 2014, il comandante della guardia personale di Compaoré, Hyacinthe Kafando, e l’allora capo della sicurezza il generale Gilbert Diendéré

 

Blaise Compaoré (Ap)

«Accusiamo Blaise Compaoré dei reati di attacco alla sicurezza dello Stato, occultamento di cadavere e complicità in omicidio e richiediamo nei suoi confronti 30 anni di pena come mandante dell’omicidio di Sankara», ha indicato la Procura militare, prima della sospensione richiesta dalla difesa fino ai primi di marzo.

Diventato presidente dopo la morte di Sankara fino alla sua definitiva cacciata a causa delle proteste popolari nel 2014, Blaise Compaoré ha sempre affermato, dal suo dorato esilio in Costa d’Avorio, di «essere estraneo al complotto che portò all’uccisione del suo caro amico» e ha etichettato questo processo come «una farsa».

Trent’anni di carcere sono stati richiesti anche contro l’altro importante assente, Hyacinthe Kafando, ex comandante della guardia di Compaoré, in fuga dal 2016 e probabilmente anche lui in Costa d’Avorio, sospettato di essere «l’esecutore materiale e di aver guidato il commando che assassinò Thomas Sankara e i suoi compagni».

Nella sua incriminazione, il procuratore militare ha ritenuto di voler richiedere il massimo della pena per tutti gli imputati presenti perché non hanno mai «espresso alcun rimorso durante il procedimento», come per i 20 anni chiesti nei confronti del generale Gilbert Diendéré, all’epoca responsabile della sicurezza e attualmente incarcerato con una condanna di 20 anni per il tentato golpe del 2015.

Se da una parte la ricostruzione legata alle colpe di Compaoré sembra ormai assodata, dall’altra alcune testimonianze indicano anche precise responsabilità di paesi stranieri come la vicina Costa d’Avorio. Numerose, durante il procedimento, le dichiarazioni sulle continue minacce di morte da parte del presidente ivoriano Félix Houphouët Boigny contro Sankara per le «sue idee dannose per tutto il continente».

Per l’International Thomas Sankara Memorial Committee (Cimts) è comunque inammissibile che «l’inchiesta su possibili colpe internazionali sia stata interrotta, incentrandosi solo sugli aspetti e gli esecutori nazionali».

Sankara voleva «decolonizzare le mentalità» – soprattutto dalle influenze colonialiste della Francia- nel suo paese e in Africa dove divenne un’icona, cosa che gli attirò le antipatie di diversi capi di stato sia africani che occidentali. Come quando nel suo discorso alle Nazioni Unite invitò i paesi africani a «non pagare il loro debito ai paesi occidentali» e denunciò le guerre «imperialiste e colonialiste», l’apartheid, la povertà, difendendo il diritto dei popoli oppressi all’autodeterminazione, come in Palestina o nel Sahara Occidentale.

Le decisioni che prese furono per l’epoca rivoluzionarie. Dalle riforme sociali e ambientaliste per eliminare la fame e la povertà del suo popolo, alla costruzione di scuole e ospedali per tutti, fino a quelle legate alla parità di genere, alla lotta contro le mutilazioni genitali femminili e alla centralità della donna nella società burkinabé.

«La sua rivoluzione durò 4 anni, ma i suoi ideali sono rimasti nelle menti e nei cuori del nostro popolo e in quello di tutti gli africani – ha dichiarato all’inizio del procedimento la moglie Mariam – questo processo è una vittoria che dimostra come il nostro paese possa ancora essere la “Terra degli uomini integri” (Burkina Faso nella locale lingua Djoula, ndr) come desiderava mio marito».

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