Actual malice, effettiva premeditazione, nel linguaggio con cui la Corte suprema degli Stati uniti fissò il concetto di diffamazione. Sono le due parole più importanti nel processo Dominion contro Fox che si è aperto ieri a Wilmington, nello stato del Delaware che ha prodotto Joe Biden, norme fiscali da paradiso e ora anche i 12 giurati (sei donne, sei uomini, la maggior parte neri) che dovranno decidere se l’ammiraglia della destra televisiva americana ha mentito sapendo di mentire, accusando delle peggiori nequizie un costruttore di computer contavoti (dall’invertire le scelte degli elettori a prestarsi a manipolazioni della Cina passando per essere emanazione del Venezuela chavista e antiamericano) per inseguire i telespettatori che emigravano su canali ancora più a destra.

In ballo c’è il Primo emendamento, che include la libertà di parola, nel paese che ha insegnato a tutti come si fa il giornalista. C’è l’antica domanda di Pilato, quid est veritas. E ci sono 1,6 miliardi di dollari di danni che Dominion pretende, e che farebbero forse chiudere Fox, capofila del pervasivo modello di business contemporaneo che prevede di adattare le news agli ascoltatori – la post-verità, su cui Trump ha costruito la campagna per rovesciare le elezioni culminata nel famoso assalto al Campidoglio, e su cui molti social guadagnano miliardi.

L’asticella per provare la diffamazione è altissima, ed è un bene. Fox sembra averla superata, e sarebbe una catastrofe storica. E ora silenzio, entra la corte.

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È stato patteggiato in extremis il processo per diffamazione in cui la Dominion, società produttrice di terminali per il voto elettronico, aveva chiesto all’emittente conservatrice Fox News danni per 1.600 milioni di dollari.