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Prigozhin, la parabola di un’ambizione è quella della Russia

Prigozhin, la parabola di un’ambizione è quella della RussiaUna corona di fiori al memorial informale davanti al Wagner Centre di San Pietroburgo – Ap

Russia Dalla colonia penale alla San Pietroburgo dell’élite, da leader dei massacri a «morto che cammina». «Era un uomo di talento dal destino difficile», le parole sibilline del leader di Mosca

Pubblicato circa un anno faEdizione del 25 agosto 2023

Ai russi all’inizio non era chiaro neanche come chiamarsi a vicenda. «Dorogie rossiyane!», «cari rossiani!», diceva Boris Eltsin nei primi discorsi ai cittadini di una federazione costruita in pochi mesi sulle rovine sovietiche, terra di granai e di galere con 150 milioni di anime e duecento gruppi etnici diversi.

Un termine politico e politicamente corretto, lontano da russkie, decisamente più popolare ma usato per definire in modo esclusivo origini e radici.

Insomma, da una parte il sangue e dall’altra l’anima, avrebbe detto il grande rivale di Eltsin, il leader comunista Gennadij Zijuganov, che di sé all’epoca scriveva senza giri di parole: «Vengo da una famiglia di russi puri come acqua di fonte, stavamo sul bordo fra la steppa e la foresta, tra i fiumi Oka e Volga, nelle lande in cui il nostro popolo è nato».

USCITO DI PRIGIONE nel 1990 dopo nove anni di colonia penale per furti, frodi e rapine commessi una volta finite le scuole, Evgenij Prigozhin si mise in quel mondo a vendere panini in un chiosco all’aperto al mercato Apraskin Dvor di San Pietroburgo.

Era figlio di un ingegnere minerario e nipote di un eroe di guerra, aveva cercato di diventare uno sciatore professionista, non trovò di meglio da fare che occuparsi di salsicce. «Era un uomo di talento dal destino difficile», ha detto ieri il capo del Cremlino, Vladimir Putin, parlando della fine di Prigozhin, morto mercoledì con il gotha del gruppo paramilitare Wagner su un aereo caduto a poca distanza da Tver forse per una bomba, forse per i colpi della contraerea.

Ma quella era pur sempre Pietroburgo degli anni Novanta, la città del rock, del contrabbando e delle anfetamine, il luogo in cui un tassista poteva diventare dalla notte alla mattina milionario, e un milionario ridursi a guidare un taxi con la stessa, tragica facilità.

DALLA GUERRA dei Balcani tornava sull’Europa la sciagura della pulizia etnica. Eltsin cedeva alle richieste dei ceceni. Prigozhin metteva insieme pezzo dopo pezzo il suo impero personale. Una quota minoritaria nella catena di negozi Kontrast. Una villa sorvegliata giorno e notte dalla sicurezza con campo da basket e pista di atterraggio per gli elicotteri.

Un ristorante su una chiatta lungo la Neva chiamato «Nuova isola». Locale elegante, ambiguo, costoso. Frequentato bene e male dai padroni di Pietroburgo. È lì che Prigozhin incrocia anche Putin, astro nascente dell’establishment russkie e rossiyane, passato in poco tempo dalla guida dei servizi segreti a quella del governo e poi salito in alto, al Cremlino, al vertice del potere federale. Parlano, si confidano, forse entrano in affari. Niente di più facile.

Il nuovo presidente, succeduto a Eltsin ed elevato a leader della nazione dopo il successo militare in Cecenia, affida al maitre di «Nuova isola» gli incontri con Jacque Chirac e con George W. Bush, gli appuntamenti ufficiali a Mosca, probabilmente qualche favore personale dentro la sua cerchia. Politici, finanzieri, petrolieri, giornalisti. Prigozhin ha molte amicizie, molte notizie, molti segreti e molto valore.

CI VUOLE LA GUERRA per cambiare la Russia e lo chef del Cremlino. Nel 2014 l’Ucraina brucia. Prima la rivolta a Kiev, poi l’annessione della Crimea, infine i referendum a Donetsk e Lugansk. In Europa si spara e si muore per la prima volta dalla guerra dei Balcani.

Prigozhin fonda una compagnia di paramilitari. Con lui c’è uno spetsnaz neonazista di nome Dmitry Utkin. La compagnia la chiamano Wagner. Combattono nel Donbass con gli indipendentisti. Quando Putin decide l’intervento in Siria per proteggere il suo alleato di Damasco, Bashar Assad, reclutano migliaia di volontari.

La loro impresa cresce, attira ufficiali dell’esercito stanchi delle paghe basse, disoccupati in cerca di un lavoro e grandi investimenti federali. Sono in Libia, Mali, Sudan, Repubblica centrafricana. Addestrano, uccidono, sovvertono, sono coinvolti nella tratta dei migranti.

Di nuovo in Ucraina, per quella che Putin chiama «operazione speciale militare», portano avanti per conto del Cremlino alcune delle battaglie più violente. Conquistano Bakhmut e Soledar dopo mesi di assalti feroci all’esercito ucraino. Prigozhin si vede spesso in prima linea.

CHIEDE ARMI, munizioni, libertà di fare quel che vuole delle terre che conquista. Si mette contro una parte consistente dell’establishment. Alla fine di giugno, quando capisce che lo scontro è inevitabile, spinge i suoi all’ammutinamento, entra a Belgorod, minaccia di arrivare a Mosca, ferma i blindati a poche centinaia di chilometri dalla capitale.

Molti lo considerano un uomo d’azione. Altri un morto che cammina. Seguono due mesi di fughe e di misteri, sino al giorno dell’incidente aereo sui cieli di Tver. Putin lo ha chiamato traditore. Questa Russia può essere soltanto sua.

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