“Ma noi non abbiamo mai detto che vogliamo approvare il premierato prima delle Europee”. La frase, pronunciata durante la seduta della Commissione Affari costituzionali del Senato dal presidente e relatore Alberto Balboni, spinge il cronista a riferire solo alla fine l’esito delle votazioni della Commissione e a provare a spiegare l’inaspettata sortita che ha spiazzato le opposizioni.

La Commissione aveva appena approvato un emendamento del governo al secondo articolo del ddl Casellati (sui complessivi 4), nonché un secondo emendamento di Marcello Pera. Siamo dunque già a metà del percorso?

Niente affatto. I primi due articoli sono i più semplici e su di essi erano stati presentati in tutto circa 300 emendamenti, con le opposizioni che hanno evitato di intervenire su ciascuno di essi.

Sui successivi due articoli, il cuore della riforma, incombono 1.500 emendamenti, quasi tutti di Pd e Avs, che sono in grado quindi di bloccare i lavori della Commissione, dove i Regolamenti impediscono “tagliole” al dibattito. Insomma le opposizioni appaiono avere in mano le chiavi dell’iter, a cui non intendono rinunciare.

In una schermaglia verbale tra Balboni e i Dem, Andrea Giorgis e Dario Parrini, i secondi hanno fatto capire le intenzioni del Pd di impedire il sì del Senato alla riforma prima delle europee; e la smentita di Balboni ha aperto uno squarcio su cui indagare.

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Probabilmente, l’aver tolto il piede dall’acceleratore dipende da un problema ieri portato all’attenzione da un appello al governo da parte di quattro associazioni, che hanno chiesto di rendere nota subito la legge elettorale collegata al premierato elettivo.

Le quattro associazioni sono quelle che il 27 febbraio scorso hanno organizzato la maratona oratoria per chiedere l’approvazione di una riforma condivisa che eviti il referendum. L’appello di ieri, pubblicato sul Sole 24 ore, evidenzia un problema già sottolineato da questo giornale, vale a dire la possibilità che con un sistema bicamerale possano esserci esiti elettorali difformi alla Camera e al Senato.

Al di là dell’argomentato appello delle quattro associazioni (Magna Carta, Libertà Eguale, Io Cambio e Riformismo e Libertà) i problemi tecnico giuridici della legge elettorale sono tali da far scervellare i giuristi consulenti del ministero delle Riforme. Prima di iniziare a esaminare gli emendamenti 3 e 4 del ddl Casellati, quelli sull’elezione diretta del premier e sulla cosiddetta norma anti-ribaltone, una idea di fondo occorrerà averla.

La conferma del rallentamento arriva dall’analoga andatura di Autonomia differenziata e della separazione delle carriere, care rispettivamente a Lega e Fi, parcheggiate in Commissione Affari costituzionali della Camera.

Martedì la Commissione del Senato farà il calendario delle prossime settimane e si capirà di più della frase di Balboni e di quando arriverà la legge elettorale.

E veniamo alla cronaca e ai due emendamenti approvati ieri dalla commissione. Il primo modifica il cosiddetto semestre bianco in coerenza con l’articolo del ddl Casellati (il 4) che riguarda i casi di scioglimento anticipato delle Camere.

L’emendamento prevede che anche durante il semestre bianco le Camere possono essere sciolte quanto “lo scioglimento costituisce atto dovuto”: vale a dire quando il premier eletto viene sfiduciato da una mozione motivata e quando si dimette “volontariamente”, senza passare la mano al secondo premier, come stabilisce appunto l’ambiguo e farraginoso articolo 4 del ddl.

Più interessante il secondo emendamento approvato e proposto da Marcello Pera. Esso stabilisce che alcuni atti del Presidente della Repubblica non debbano più essere controfirmati dal governo, come prescrive l’attuale articolo 89 della Carta (quello sulla “irresponsabilità politica” del Colle): “Non sono controfirmati la nomina del presidente del Consiglio, la nomina dei giudici della Corte Costituzionale, la concessione della grazia e la commutazione delle pene, il decreto di indizione delle elezioni e dei referendum, i messaggi al Parlamento e il rinvio delle leggi alle Camere”.

La logica è “proteggere” gli atti del Presidente della Repubblica in caso di conflittualità con il governo. Ma questa intelligente misura di Pera svela la natura del premierato, quella di un modello istituzionale conflittuale, in cui il mandato diretto supplisce all’assenza di poteri reali del premier, che dovrà strapparli agli altri soggetti della Repubblica, a partire dal Parlamento e dal Capo dello Stato.