Al centro del simposio di Jackson Hole che si chiude oggi con un panel sulle «prospettive della politica post-pandemica», c’è stato il grande tema degli squilibri macroeconomici indotti dalle strozzature dal lato dell’offerta e dall’impennata dell’inflazione su scala globale. Come far fronte alle tensioni inflazionistiche senza far precipitare l’economia in recessione, aggravando per di più lo stato di salute delle finanze pubbliche (focus anche sui bilanci ipertrofici degli istituti centrali)? È la domanda a cui hanno cercato di dare qualche risposta gli economisti e i banchieri centrali (per la Bce, la tedesca Isabel Schnabel) convenuti nell’amena località dello stato del Wyoming, che ospita ormai da 45 anni l’incontro promosso dalla Fed di Kansas City.
I NODI, COM’ERA PREVEDIBILE, non sono però stati sciolti. Il quadro è intricato, regna l’incertezza. E la discussione sul dopo pandemia appare alquanto arretrata, dato l’irrompere sulla scena internazionale di un nuovo fattore di destabilizzazione dell’economia come la guerra russo-ucraina. Guerra regionale elevata al rango di conflitto di civiltà, che sta accelerando la transizione verso un nuovo ordine (o disordine) mondiale. Con effetti asimmetrici da un capo all’altro dell’Atlantico.
UN ESEMPIO È IL GAS NATURALE che costa in America dieci volte in meno che in Europa.
Il capo della Federal Reserve Jerome Powell, nondimeno, ha evitato qualsiasi riferimento a tali contraddizioni nel suo intervento (il più atteso della tre giorni, per ovvie ragioni). Si è concentrato sugli Stati Uniti, con un approccio molto duro al tema del rialzo dei prezzi. «Useremo vigorosamente ogni mezzo per combattere l’inflazione, anche se questo causerà un po’ di dolore per la società», è stato uno dei passaggi più salienti del suo discorso.

Nel mirino, il mercato del lavoro. È cresciuto troppo, va «ammorbidito», più «flessibilità». Il tasso di disoccupazione è ai minimi da cinquant’anni (oltre cinquecentomila posti di lavoro in più a luglio). Non è compatibile con gli attuali livelli di inflazione (8,5% su base annua). Tassi ancora più alti, quindi. A dispetto della contrazione del pil registrata nei primi due trimestri dell’anno (recessione tecnica). Il ragionamento è questo: i fondamentali (mercato del lavoro, spesa delle famiglie, redditi dei consumatori e delle imprese, produzione industriale) sono abbastanza solidi da garantire un impatto non traumatico della stretta monetaria sull’economia e la società. I «dolori», insomma, saranno sopportabili. Che poi, «non frenare i prezzi sarebbe ancora più dannoso per l’economia», è stata la conclusione di Powell.

Appuntamento alla prossima riunione della Fed in programma per settembre, allora. Con una certezza: il tasso di riferimento sarà alzato ancora di 50 o 75 punti base. Ma non finirà lì. Per quanto il presidente della Fed abbia dichiarato che le prossime decisioni si baseranno sui dati mensili dell’inflazione, la previsione è che il tasso guida dovrà raggiungere il 4% nel 2023, per poi eventualmente ridiscendere, gradualmente, tenuto conto dell’andamento dell’economia.
DOPO PIÙ DI DIECI ANNI, cala il sipario sulla politica monetaria espansiva, fatta di tassi a zero e di liquidità senza limiti, delle banche centrali (con qualche rara eccezione). Forse questo è l’unico dato che avvicina le due sponde dell’Atlantico («l’inflazione è sempre e comunque un fenomeno monetario», ammoniva Milton Friedman). Per il resto, diverse sono le «inflazioni», diversi sono gli scenari che le due economie – quella europea e quella americana – si troveranno da qui a poco davanti.