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Popolazione afgana stremata: più del 50% senza aiuti umanitari muore

Popolazione afgana stremata: più del 50% senza aiuti umanitari muoreKabul, in fila per i pacchi alimentari inviati da Seul – Ap/Ebrahim Noroozi

Audizione di Emergency e Intersos alla Camera «È necessario negoziare, che non vuol dire affatto riconoscere il regime repressivo»

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 15 agosto 2024

Se il terzo anniversario della fine della guerra afgana rimette il Paese sotto i riflettori e torna la pressione per la fine della discriminazione di genere, la popolazione continua a subire i contraccolpi di una guerra durata 40 anni con una situazione umanitaria grave dal punto di vista alimentare, sanitario, educativo. Il tema è stato sollevato in luglio nell’audizione parlamentare che alcune Ong e associazioni – tra cui due “colossi” dell’aiuto umanitario in Afghanistan come Emergency e Intersos – hanno tenuto al Comitato permanente sui Diritti umani della Camera presieduto da Laura Boldrini. Il quadro delineato ricorda che in Afghanistan 23,7 milioni di persone, più della metà della popolazione, ha bisogno di aiuti umanitari per sopravvivere. Oltre l’80% delle famiglie vive con meno di un dollaro al giorno e i tassi di malnutrizione materno-infantile sono fra i più alti al mondo così come l’incidenza di morti di parto, conseguenza di un sistema sanitario fragile, sostenuto, soprattutto nelle aree remote rurali e montane, solo dalla presenza di Ong internazionali.

Secondo Emergency, più di 8 afgani su 10 sono costretti a prendere denaro in prestito per curarsi e il 70% a posticipare le cure, per via di spese non solo per farmaci o visite, ma anche per i trasporti per raggiungere le strutture. Più di un partecipante su 5 al sondaggio condotto in dieci Province afgane ha dichiarato di aver perso un parente o un amico che non ha avuto accesso alle cure di cui aveva bisogno. «La vita degli afgani – ha detto Emergency alla Commissione – non è quindi più in pericolo – o almeno non quanto prima – a causa di ordigni esplosivi o del fuoco incrociato, ma perché non hanno abbastanza reddito da mettere un pasto in tavola per le proprie famiglie». Per altro, da gennaio ad aprile 2024, Emergency ha ricoverato oltre 200 pazienti per ferite da scheggia o da mina: 94, quindi 1 su 2, erano minori di 18 anni.

Intersos ha fatto notare che «dal ritiro delle forze internazionali nel 2021 ad oggi, l’Afghanistan non è più considerato dalla Cooperazione italiana un Paese prioritario» in una situazione che «è anche l’esito di un approccio fallimentare sostenuto per vent’anni dall’Occidente, che non ha creato una società più resiliente, sostenibile o pacifica». Secondo le associazioni presenti in Commissione, le condizioni di sicurezza potrebbero peggiorare in mancanza di opportunità e condizioni di vita dignitose e sostenibili per donne e uomini e «a pagarne il prezzo saranno i civili, soprattutto i più vulnerabili» (detto per inciso, sia Emergency sia Intersos impiegano personale femminile a dimostrazione che qualcosa si può fare a garanzia delle donne, ndr).

Ai quesiti posti al governo da Laura Boldrini con un’interrogazione presentata dopo l’audizione, il ministero degli Esteri ha risposto che «la Cooperazione italiana ha mantenuto un forte impegno in Afghanistan (concentrandosi) sul canale umanitario: 147 milioni di euro dal 2021 al 2023, per sostenere le iniziative in Afghanistan e nei Paesi limitrofi delle principali Organizzazioni internazionali e non governative presenti sul terreno». Che è però una riduzione degli stanziamenti se si considera che nei venti anni di presenza italiana (2002-2021) il costo della missione militare è stato di quasi 8,7 miliardi di euro dollari a fronte di 1,25 in Cooperazione allo sviluppo (oltre 60 milioni all’anno).

Sorvolando sui fondi congelati dagli alleati alla Banca centrale afgana (di cui l’Italia avrebbe il controllo su circa 100mila euro), il Mae ricorda che «il Governo è in prima linea nel trasmettere alle Autorità de facto messaggi fermi e decisi sulle aspettative della Comunità internazionale». Una risposta che lascia insoddisfatto chi chiedeva invece in Commissione un «impegno costruttivo», una «diplomazia dei piccoli passi, dietro le quinte, che non sia declamatoria e basata su ultimatum, ma che ricerchi l’opzione che più tutela i diritti e i bisogni della popolazione e delle donne». «Parlarsi – dicono le associazioni – non significa riconoscere il regime né accettarne le politiche repressive e discriminatori (mentre) le conseguenze di disimpegno e isolamento verrebbero pagate dalle stesse categorie che vorrebbe difendere chi nega ogni ipotesi negoziale».

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