La relazione annuale dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) esposta ieri dal presidente Giuseppe Busia nella Sala della Regina della Camera dei Deputati ha colto alcuni aspetti decisivi nell’orientamento politico-culturale dell’estrema destra postfascista e leghista al potere: i rischi legati alla deregolamentazione con annessi rischi di corruzione, in questo caso del Codice degli Appalti; la concezione sostanzialmente parassitaria del privato a danno del pubblico presente nel faraonico progetto del Ponte di Messina, un vecchio sogno rinverdito da Matteo Salvini; l’idea di uno stato di emergenza legato alla deroga continua rispetto alla «regola» che sarebbe l’espressione delle lentezze della «burocrazia».

UN CONCENTRATO di liberismo archeologico condito con i principi dell’economia dello «choc» e dell’individualismo proprietario. Un cocktail tossico che si può sorseggiare anche nelle tortuose difficoltà in cui si dimena l’esecutivo alle prese del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr); nei progetti di riforma costituzionale; nell’«autonomia differenziata», non a caso ribattezza «secessione dei ricchi». Profitti privati sulle spalle della società. È un’idea di Stato. E di capitalismo.

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NEL DECRETO LEGGE sul Ponte di Messina che collegherà Sicilia e Calabria c’è, ad avviso di Busia, «uno squilibrio nel rapporto tra il concedente pubblico e la parte privata, a danno del pubblico, sul quale finisce per essere trasferita la maggior parte dei rischi». Busìa ha detto che gli emendamenti presentati dall’Anac per correggere questa stortura non sono state accolte dal governo. Strettamente collegato alla mega-opera sono state le osservazioni del presidente dell’Anac a proposito della riforma del Codice degli Appalti modificato in peggio dal governo Meloni. «La deroga non può essere la regola» ha detto il presidente dell’Anticorruzione il quale ha criticato anche le «scorciatoie foriere di rischi». Ad esempio l’innalzamento delle soglie per gli affidamenti diretti, in particolare nei servizi e nelle forniture; l’eliminazione di avvisi e bandi per i lavori fino a cinque milioni di euro. Busìa ha denunciato anche i pericoli del «subappalto a cascata», lo svuotamento di fatto dell’ingresso di donne e giovani negli appalti del Pnrr; la mancata introduzione nel nuovo codice dell’obbligo di dichiarare il titolare effettivo dell’impresa, come richiesto dall’Anac.

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NEGLI ULTIMI MESI, grazie ai fondi del Pnrr, è cresciuto il numero degli appalti. Lo scorso anno si è registrata una vera impennata degli affidamenti: il valore complessivo degli appalti di importo superiore a 40 mila euro è stato di circa 290 miliardi di euro, a fronte dei quasi 208 dell’anno precedente, con un incremento di circa il 39% rispetto al 2021 e del 56% rispetto al 2020, quando il valore degli appalti si era attestato sui 185 miliardi di euro. Il dato è l’indice di una ripresa dell’accumulazione. Dal punto di vista di un capitalismo regolato necessita però di un’attenzione ancora più alta contro i pericoli del subappalto a cascata. Si comprendono allora i pensieri di Busìa a proposito dei ritardi del Pnrr. I problemi creati dall’effettiva difficoltà a gestire i capitali piovuti in Italia dopo un deserto di investimenti che durava da anni sono accompagnati dalle conseguenze del «fare presto», e a tutti i costi, pur di dimostrare di avere speso qualcosa. A qualsiasi prezzo. A tale proposito Busìa ha invitato a «rinegoziare alcune misure» del Pnrr. Perché «non tutti gli investimenti hanno la medesima urgenza».

INTERESSANTE è anche l’osservazione sulla formazione dei nuovi monopoli in questo momento di crisi. «Non possiamo più sostenere un’architettura istituzionale in cui tutte le 26.500 stazioni appaltanti registrate possano svolgere qualunque tipo di acquisto, a prescindere dalle loro capacità – ha detto Busìa – Occorre una drastica riduzione del loro numero. Solo le amministrazioni in grado di utilizzare le più evolute tecnologie possono gestire le gare più complesse». Ma «le potenzialità insite nella riforma sono state limitate innalzando a 500 mila euro la soglia oltre la quale è obbligatoria la qualificazione per l’affidamento di lavori pubblici, col risultato di escludere dal sistema di qualificazione quasi il 90% delle gare espletate». Ridurre le stazioni appaltanti è «una necessità, non solo per rispondere all’obiettivo posto dal Pnrr, ma anche per assicurare procedure rapide, selezionare i migliori operatori e garantire maggiori risparmi nell’interesse generale».

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Ci ha pensato fino alle 19 di ieri, poi è arrivata la reazione di Salvini all’Anac, in particolare sul Ponte sullo Stretto. «Critiche infondate – recitava la nota del «suo» ministero delle infrastrutture e dei trasporti – come lo erano quelle sul Nuovo Codice degli Appalti. Non solo perché verrà nominato un responsabile della prevenzione della corruzione e per la trasparenza, ma anche perché le garanzie a tutela della legalità e del corretto utilizzo dei fondi pubblici sono salvaguardate dalle norme generali del nostro ordinamento nonché dal Codice degli Appalti».

Di parere opposto le opposizioni. I Cinque Stelle hanno parlato di «governo dei patrioti» che si fa beffe dello Stato. La verità è che a Salvini e ai suoi alleati interessa solo l’«affare» ponte sullo Stretto, al fine di saziare gli appetiti dei soliti noti». Per Walter Verini, (Pd), «Busia conferma la profonda preoccupazione che autorità di garanzia e di contrasto alla criminalità nutrono per l’abbassamento delle misure di prevenzione e contrasto alla corruzione che caratterizza l’operato del Governo Meloni». Angelo Bonelli dei Verdi-Sinistra ha denunciato la presenza nel «cda della società “Stretto di Messina” di Francesco Saccomanno il cui unico titolo è di essere commissario regionale della Lega in Calabria».

«I rischi di infiltrazioni mafiose negli appalti sono evidenti – ha detto la Cgil – dall’innalzamento delle soglie e dall’uso eccessivo delle procedure di affidamento diretto e senza bando di gara, permessi dal nuovo Codice, che annullano la concorrenzialità e la regola dell’evidenza pubblica».