La crisi politica del governo «di larghissime intese» e «senza formule politiche» aperta da Mario Draghi è un colpo al cuore al percorso delle «riforme» avviate in nome del Piano di ripresa e resilienza (Pnrr). Un «piano» che avrebbe dovuto realizzarsi per volontà dello Spirito santo. Invece ha scatenato l’inferno dei veti incrociati tra i partiti che compongono la maggioranza. L’«emergenza nazionale» nulla ha potuto contro i balneari, mentre molto ha fatto contro i beneficiari del «reddito di cittadinanza» tartassati dai partiti, anche dai Cinque Stelle, con la legge di bilancio 2021 e con il «Decreto Aiuti».

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Bisogna intendersi sul significato di «riforma». Troppi sono ancora gli equivoci che produce a destra e a sinistra. Nella neolingua della contro-rivoluzione neoliberale usata per difendere l’operato del governo, questo concetto non indica una trasformazione graduale del sistema capitalistico. Significa vincolare i diritti sociali alla logica della concorrenza. Nel «Pnrr», hanno calcolato Federico Chicchi e Anna Simone nel libro Il soggetto imprevisto (Mimesis), la parola «competitività» ricorre 116 volte,«eguaglianza» solo una volta, «democrazia» zero. «Riforma» allora significa processo di trasformazione del mercato senza democrazia né eguaglianza. L’idea è condivisa da tutte le forze politiche che si combattono nel governo di Draghi. La causa dei problemi del mondo contemporaneo è assunta così come il rimedio. Questo cortocircuito aggrava la crisi in atto, non la risolve.

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Prendiamo la «riforma» degli istituti tecnici e professionali (Its) voluta dal molto contestato ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi. Sono stati investiti 1,5 miliardi di euro sui circa 12 previsti dal Pnrr per scuola e università. «È stato adottato il termine “ITS Academy” che fa riferimento a un modello che si è sviluppato dove gli Istituti Tecnici Superiori sono stati inquadrati come mera struttura formativa al servizio di specifiche aziende e di determinate realtà produttive forti – sostengono Christian Ferrari (Cgil) e Francesco Sinopoli (Flc Cgil) – Giudichiamo negativo il fatto che si preveda che tutto il personale docente, tecnico amministrativo e di laboratorio sia assunto con contratti di prestazione d’opera. Ipotizzare il consolidamento di questo sistema terziario senza prevedere per lo meno la stabilità del personale tecnico e amministrativo. C’è così il rischio che le cospicue risorse del Pnrr si trasformino in ulteriori incentivi alle imprese, e non in un’opportunità di crescita formativa e culturale degli studenti». Sebbene sia stata approvata dal Parlamento, dunque anche dai Cinque Stelle, questa cosiddetta «riforma» necessita di 19 provvedimenti attuativi. La caduta di Draghi rallenterebbe il processo di aziendalizzazione e precarizzazione. Bene, tuttavia il consenso di cui gode questa strategia tra i dominanti è enorme. In mancanza di un’opposizione di massa sarà applicata. Come accade da più di trent’anni.

Sulle pensioni, invece, non esiste un consenso tra le opposte fazioni neoliberali accampate nel Draghistan. La Lega aveva promesso di cancellare la «legge Fornero». Erano fandonie. Nel corso della legislatura sono stati adottati dispendiosi correttivi («quota 100»; «quota 102») che si sono rivelati inutili. A meno di correttivi, improbabili, dal primo gennaio 2023 la pensione di vecchiaia farà un balzo secco a 67 anni di età e quella anticipata a 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne. Per di più mentre cresce il lavoro povero e precario. È il fallimento di quei «populisti» rispettosi del verbo neoliberale che, dieci anni fa, promisero di abolire questa «riforma». Difficile farlo al governo con Draghi, il garante del sistema.

La crisi nasconde un’altra illusione: prorogare all’infinito le misure estemporanee contro il caro-vita senza misure di redistribuzione strutturale e di trasformazione del sistema fiscale in termini progressivi. Ipotesi irrealizzabile in un governo «senza formule politiche». Draghi ha stanziato 33 miliardi. Altri 10 sarebbero venuti entro luglio. Insostenibile per il bilancio, alla lunga. A farne le spese sono i lavoratori. Sette milioni attendono i rinnovi dei contratti nazionali. Per quelli della scuola (oltre 1 milione) si parla di aumenti risibili (100 euro lordi) rispetto a quanto hanno perso dalla crisi del 2008. L’impoverimento cresce, l’inflazione è all’8% a giugno, si promettono di aumentare i «minimi contrattuali», e non istituire un «salario minimo». Anche se sopravvivesse il governo potrebbe non risolvere il dilemma del «taglio al cuneo fiscale». Andrebbe ai lavoratori, o anche alle imprese? Fino al 15 ottobre difficile dirlo. Allora il documento di bilancio dovrà essere recapitato a Bruxelles. Si resta sospesi in attesa di sapere se Putin chiuderà il gas, se la fine delle politiche monetarie espansive e se l’aumento dei tassi di interesse spingeranno verso la recessione.

Una realtà impensabile quando Draghi è stato messo al governo 15 mesi fa. La crisi è il frutto di questi fattori. Non del «teatrino della politica».