Draghi, 516 giorni di politiche economiche conservatrici e fallimentari
La crisi Bonus bruciati dall’inflazione, invece di vere riforme sociali strutturali. Dalla riforma fiscale ai bonus edilizi fino a una fantomatica "agenda sociale". Gli effetti della policrisi capitalistica hanno colpito la parte più debole, e contraddittoria, della coalizione "senza formule politiche": i Cinque Stelle. E continueranno a divorare la politica del Palazzo dall'interno
La crisi Bonus bruciati dall’inflazione, invece di vere riforme sociali strutturali. Dalla riforma fiscale ai bonus edilizi fino a una fantomatica "agenda sociale". Gli effetti della policrisi capitalistica hanno colpito la parte più debole, e contraddittoria, della coalizione "senza formule politiche": i Cinque Stelle. E continueranno a divorare la politica del Palazzo dall'interno
Dopo 516 giorni il governo Draghi è stato piegato dai primi effetti prodotti dalla crisi economica sulla forza politica più indebolita, e contraddittoria, della sua maggioranza «senza formule politiche»: i Cinque Stelle. Incapace di imporre un’«agenda sociale», concessa da Draghi solo poche ore prima le sue dimissioni, questo partito capace di stare al governo con tutti non è però riuscito a imporre il suo progetto di «salario minimo» che giace nei cassetti del parlamento da quattro anni. In compenso ha accettato di peggiorare il «suo» reddito di cittadinanza, già pensato come una feroce politica di Workfare, con la legge di bilancio del 2021. Solo alla fine ha avuto un sussulto, quando la «sua» maggioranza ha votato un emendamento di Fratelli d’Italia al «decreto aiuti» che esautora i centri dell’impiego e attribuisce ai datori di lavoro privati un potere teorico e inapplicabile di denunciare i beneficiari del «reddito» che rifiutano un’«offerta di lavoro congrua». Troppo tardi. Le contraddizioni si pagano.
Insieme al termovalorizzatore che il Pd del sindaco Roberto Gualtieri vuole costruire a Roma, l’altro motivo della crisi politica è stato il superbonus 110%. Un’altra bandiera di un partito-non partito che ragiona con la logica delle «politiche identitarie». Su questa misura, e su tutti gli altri bonus, sull’edilizia c’è stata nella maggioranza una lotta senza quartiere. Il governo «Conte 2» li ha adottati pensando, non a torto, che la «crescita» del Pil sarebbe stata rilanciata nel paese dell’individualismo proprietario basato sul mattone. E, insieme al numero dei morti sul lavoro nei cantieri, questa idea «sviluppista» ha prodotto risultati. Nella necropolitica di un capitalismo in crisi, e dunque sempre più feroce, la misura ha alimentato un «rimbalzo tecnico» dopo il crollo colossale del Pil (-8,9%) avvenuto nel 2020 a causa dei lockdown necessari per contenere la diffusione del Covid. Il superbonus ha prodotto anche una fiammata dell’occupazione precaria e ha dato un parziale contributo della ristrutturazione energetica e antisismica. La polemica è scattata sugli abusi miliardari denunciati dall’Agenzia delle entrate, dalla Guardia di finanza e dalla Corte dei Conti. In realtà, il vero problema è stato creato da un altro bonus, quello «facciate», non sostenuto dai Cinque Stelle. Ecco un altro dei tanti equivoci di questi mesi.
Poi il caos: il governo è intervenuto con misure parziali, e confuse, che hanno bloccato le attività intraprese con il rischio di fallimenti a catena di piccole e piccolissime imprese, alcune delle quali nate negli ultimi tempi vista l’abbondanza dei fondi a disposizione. Così è emerso un aspetto decisivo per comprendere il segno del governo Draghi, e di quello che lo ha preceduto (il «Conte2»): il suo essere conservatore dal punto di vista sociale. Questa politica dei bonus ha avuto effetti distribuitivi molto spostati sui ceti medi e medio-alti. Non ha risolto nulla dell’emergenza abitativa, così come non ha trasformato nulla nello Stato sociale, l’unico strumento potenzialmente universale capace di contenere gli effetti della policrisi in corso dal 2020.
Il caso di scuola di questa politica neo-conservatrice, tipica dei regimi neoliberali esistenti, è quello della rimodulazione delle aliquote Irpef. Con questa manovra , contestatissima dai sindacati, il governo Draghi ha dato di più a chi ha di più e di meno a chi ha di meno. È stato penalizzato l’85% dei lavoratori e pensionati che hanno un reddito sotto i 40 mila euro. Una riforma fiscale regressiva che ha fatto un intervento sulle fasce meno abbienti e più in difficoltà, anziché dedicare risorse pubbliche a chi ha già tanto e poche briciole a chi stenta ad arrivare a fine mese.
Senza contare che gli effetti minimi di questa operazione sono stati divorati dalla mega inflazione esplosa solo poche settimane dopo. Lo stesso destino è riservato ai 200 euro distribuito a una platea di oltre 31 milioni di persone. Così ampia da rendere inutile la distribuzione di altri 5,6 miliardi. Una pioggerella nel deserto. È l’incapacità di immaginare un’altra politica davanti a eventi drammatici che hanno piegato il sistemagià travolto dal Covid. E continueranno a divorarlo dall’interno
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento