Pnrr, da «rinascita nazionale» a puzzle di dubbi
Nuova Finanza pubblica La rubrica settimanale di politica economica. A cura di autori vari
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Sono mesi che vanno aumentando i dubbi attorno al PNRR. Tempi che si allungano e, soprattutto, un crescendo di dubbi sul senso di quello che doveva essere una sorta di progetto di rinascita nazionale. Un’occasione irripetibile. Spesso la si definiva persino l’ultima per realizzare la tanto agognata modernizzazione del paese. Poi sono sorti i dubbi sul piano politico, quelli espressi dalla Corte dei Conti e dalla Commissione europea e, infine, da alcuni economisti.
Cresce un dibattito/confronto che rimette in discussione l’opportunità rappresentata dal Pnrr impensabile fino a quando era in carica il governo Draghi. Quello Conte ottiene le risorse, quello Draghi nasce con la motivazione che servirebbe un esecutivo qualificato per «mettere a terra» (locuzione tanto di moda fino a non molto tempo fa) queste risorse straordinarie, infine, quello Meloni cambia la cabina di regia tecnica del Piano anche per poi modificarne parzialmente gli obiettivi. In un primo momento il cosiddetto Next Generation dell’Unione europea rappresenta un’indubbia novità, in quanto per la prima volta, sebbene sotto l’incalzare di una pandemia globale, si decide di emettere Bond comuni europei. A distanza di due anni le risorse ottenute da Bruxelles rischiano di cambiare di segno ed evidenziare proprio i limiti più profondi del paese.
Al netto delle polemiche politiche e dei rimpalli di responsabilità emerge una crescente difficoltà non solo a rispettare le tempistiche sulla realizzazione dei progetti, ma anche sulla necessità e utilità dei progetti stessi. Gli economisti Boeri e Perotti recentemente hanno affermato: «troppi soldi, troppa pressione per spenderli a prescindere, troppo poco tempo». Che l’Italia abbia ricevuto troppi soldi non significa che di quelle risorse non ne avrebbe bisogno, quanto che non è capace di impiegarle utilmente. Da cui ne consegue un certo atteggiamento a volerli spendere «a prescindere». Vengono programmate opere straordinarie senza sufficiente corrispondenza tra costi e benefici, nella scuola arrivano strumenti digitali, ma gli edifici cadono a pezzi, per gli asili nido si prevedono importanti risorse, ma non vengono previste per gli enti locali quelle proporzionate per gestirli nell’ordinarietà, digitale e ambiente sembrano totem indiscutibili rispondenti a mode piuttosto che a calibrati ed efficaci progetti.
Ecco allora il dubbio che vengano spesi per opere che non saranno infrastrutture per il futuro, ma frutto di pressioni clientelari o peggio spese sostenute perché esistono risorse, senza alcuna progettazione e prospettiva. Obbligati a spendere senza un’idea adeguata di come.
Si pone, dunque, un problema di capacità di spesa dello stato italiano. E qui sorprendersi è un po’ come il pianto dei coccodrilli.
La riduzione degli investimenti pubblici è una tendenza avviata negli anni Ottanta. Nel 1980 erano pari al 10,8% del Pil, nel 2000 scendevano al 6,8%. Dal solo 2009 siamo passati dal 3,7% del Pil al 2,2%. La ritirata dello stato non è stata solo sugli investimenti in capitale, ma anche nel personale. Nel 2021 il numero di dipendenti raggiunge il livello più basso degli ultimi 20 anni. Sono tra i meno pagati a livello europeo, hanno un’età media di 50 anni e quasi l’80% supera i 40 anni. Esistono importanti ministeri che non effettuano un concorso per assumere dai primi anni Novanta.
La ritirata dello Stato oggi viene scoperta perché non riesce a spendere poco meno di 200 miliardi di cui la gran parte a debito, ma con 69 miliardi a fondo perduto. Se queste risorse rappresentano, come si sentiva dire fino a qualche mese fa, l’ultima occasione di rilancio del paese, più che un’occasione sembra l’ultima dimostrazione che lo smantellamento della sfera pubblica non è stato elemento di innovazione e di efficientamento del sistema, quanto di un’ulteriore caduta, da cui non si sa come rialzarsi.
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