«Le mani ci ricordano la nostra identità», afferma Ousmane Goïta mentre indica le fotografie della serie Faire a cui ha affidato la sua riflessione su come l’emigrazione possa avere un risvolto positivo quando il lavoro è sinonimo di riscatto. Le foto, realizzate a Deauville durante la sua residenza d’artista, sono esposte negli spazi de Les Franciscaines, esempio «illuminato» di edificio di archeologia industriale trasformato dalla municipalità in hub culturale, tra conservazione della memoria e proiezione nel futuro. Il giovane fotografo maliano è tra i rappresentanti del premio Tremplin Jeunes Talents (sostenuto da Fnac e in partnership con il festival InCadaquès), con Julia Lê, Carlo Lombardi, Isabelle Scotta, Sidonie Van Den Dries alla 14.ma edizione di Planches Contact – Festival de photographie de Deauville (fino al 7 gennaio 2024).

L’appuntamento con il festival fotografico più importante della Normandia (finanziato dalla Regione Normandia) si è appena inaugurato sotto la direzione artistica di Laura Serani, il coordinamento di Camille Binelli e gli allestimenti di Jean-Charles Remicourt-Marie che già si pensa alla prossima edizione per i suoi quindici anni. In primo piano ci sarà la collezione di oltre 800 immagini fotografiche firmate da grandi autrici e autori che hanno esposto a Deauville, tra loro Paolo Roversi, Rinko Kawauchi, Sarah Moon, Massimo Vitali, Raymond Depardon, Lorenzo Castore, Larry Fink, Peter Lindbergh. Nel frattempo, sotto la consueta pioggia tra sprazzi di verde intenso per le vie del centro con le sue eleganti dimore tradizionali (sembra di camminare dentro una favola nordica) e la striscia di spiaggia monumentale che sfonda l’orizzonte, sono 25 le mostre (per la maggior parte inedite) realizzate proprio grazie alla vocazione di Planches Contact di essere un festival-laboratorio. Il modo di dire maliano «il posto di un uomo è dove trova un lavoro da fare», fonte d’ispirazione anche per Goïta, sembra perfettamente in linea con gli obiettivi della manifestazione in cui si respira un’aria produttiva di collaborazione e amichevole complicità tra tutti i protagonisti. Ma torniamo alle mani: una mano femminile è inquadrata anche nel lavoro di Julia Lê, artista franco-americana di origine vietnamita (a lei la giuria ha assegnato il premio Tremplin Jeunes Talents) che entra delicatamente nella sfera invisibile delle donne che lavorano nella regione come cameriere e «brillano nella loro intimità».

Un’altra mano, accanto ad un nido di uccelli, fa parte del dialogo visivo proposto da Margot Wallard lavorando sull’archivio del nonno paterno Daniel, farmacista di Trouville con la passione per la fotografia che fu amico di Louis Aragon (gli rese omaggio con un libro di ritratti pubblicato nel 1979) e André Gide. Il tema della memoria nelle sue diverse declinazioni è presente in numerosi lavori: oltre a Wallard, tra gli artisti in residenza, quest’anno ci sono stati Jacopo Benassi, Luca Boffi, Elina Brotherus, Olivier Culmann, Omar Victor Diop, Max Pam, Salvatore Puglia, Matt Wilson e Jean-François Spricigo (in collaborazione con il Conservatoire du littoral); per la fondation photo4food Carline Bourdelas, Benjamin Decoin, Thomas Jorion, Sandra Matamoros e Julien Mignot a cui vanno aggiunti i progetti di Robert Doisneau & Malick Sidibé, Richard Pak, Olivier Goy ed infine di The Anonymous Project con le immagini vernacolari dal tema «via col vento» che diventano bandiere lungo la Promenade des Planches e vele di piccole imbarcazioni nel porto turistico di Deauville. Lo sguardo indugia soprattutto sulla forza evocativa della natura attraversata da un «nuovo romanticismo», come nel pittorico lavoro a colori di Matt Wilson realizzato in giro per le terre normanne in cui l’autore trascende la dimensione temporale per conferire ad ogni singola immagine l’essenza dell’unicum. La fotografia come parte di un processo più ampio fortemente autobiografico (ma non autoreferenziale) è centrale in due progetti fuori dagli schemi, di matrice underground L’autonomie de la nature di Jacopo Benassi e sulla scia di un’estetica brutalista Panorama Imaginaire di Luca Boffi.

Entrambi sono site-specific in cui lo spettatore entra fisicamente cercando un proprio ritmo interiore nel confrontarsi con una dimensione della natura e dell’ambiente che appare nelle sue fragilità ma anche nelle capacità di resistenza. Un tocco di leggerezza, infine, con la mostra istituzionale sulla spiaggia nata dall’idea di Laura Serani di creare un dialogo immaginario «improbabile» – come è lei stessa ad affermare – tra due figure molto distanti. «Robert Doisneau fotografo francese, grande figura della fotografia umanista e Malick Sidibé che ha sempre vissuto e fotografato solo in Mali, a Bamako, molto conosciuto nella regione ma sconosciuto all’estero fino agli anni ’90.» Dal 2019 alla direzione del festival, Serani ha conosciuto entrambi. «Non hanno avuto l’occasione di incontrarsi perché Doisneau è morto nel 1994, l’anno prima che Malick venisse in Francia per la prima volta, quando organizzai la sua mostra alla Fnac.» – spiega – «Dopo siamo rimasti sempre in contatto, ho fatto tre libri con lui e molte mostre internazionali. Erano due persone che amavo molto e che avevano in comune una grande popolarità nel loro paese, ma anche una grande umanità e un atteggiamento molto positivo verso la vita. Malick diceva sempre «sorridete la vita è bella». Ho ripreso questa frase nel titolo della mostra Robert Doisneau & Malick Sidibé. De Palm Springs à Bamako, souriez, la vie est belle. Cerco sempre dei lavori poco conosciuti e se di Doisneau ho scelto quello a colori, realizzato nel 1960, sulla costruzione dei campi da golf nel deserto americano, di Malick dall’archivio di André Magnin ho selezionato la serie poco nota scattata lungo il bordo del fiume Niger, negli anni ’60-’70, e soprattutto le foto della piscina di Bamako che non erano mai state stampate. Erano due autori che avevano in comune un grande umorismo, erano molto spiritosi e sdrammatizzavano. Malick, per esempio, dato che era difficile in Africa avere le pellicole, nonché molto costoso, faceva uno scatto alla volta e quando il soggetto si muoveva e la foto veniva mossa sotto vi scriveva «c’est pas ma faute» (non è colpa mia). Ho cercato delle immagini che potessero sottolineare questi punti comuni. Il giorno, la notte, le feste… immagini anche molto in contrasto tra loro con l’opulenza americana da una parte e la semplicità africana dall’altra, con l’energia di quegli anni di grandi cambiamenti. Ho giocato su questa doppia lettura che fa sorridere, ma volevo soprattutto creare un dialogo tra la cultura africana e quella occidentale, due mondi paralleli.»