Alla notorietà di Alejandra Pizarnik ha contribuito la leggenda oscura che la riguarda, fatta di sofferenza, trasgressione, fragilità, malattia mentale e attrazione per la morte, culminata nel suicidio a trentasei anni, nel 1972, che a lungo ha orientato la lettura di questa figura di primo piano nella letteratura di lingua spagnola del novecento, e non solo, grazie alle sei raccolte di versi apparse tra il 1955 e il 1971, e a una singolare novella, La contessa sanguinaria, travestita da recensione di un romanzo altrui. Finché, a partire dagli anni ottanta, la pubblicazione di nuovi materiali (prose, corrispondenza, diari) ce l’ha mostrata come un universo in espansione, che continua a dilatarsi e a mutare, tanto che secondo la più attendibile biografa di Pizarnik, Cristina Piña, «Ogni generazione va incontro a una Alejandra diversa».

A reperire gran parte degli inediti furono Olga Orozco e Ana Becciu, che subito dopo la morte dell’autrice catalogarono una mole considerevole di poesie, audaci prose dal tono umoristico e osceno, manoscritti affollati di eleganti scarabocchi, taccuini trasformati in objets d’art da collages e disegni (ora esposti in una bellissima mostra Alejandra Pizarnik Entre la imagen y la palabra, allestita alla Biblioteca Nacional «Mariano Moreno»)  e infine i venti quaderni dei diari, migliaia di pagine scritte nell’arco di diciotto anni, tra il 1954 e il 1972, che dopo aver viaggiato tra due continenti, passando per mani diverse, sono approdati alla biblioteca della Princeton University.

A renderli pubblici ha provveduto l’Editorial Lumen, in due versioni: quella del 2003, che ha suscitato numerose critiche per i tagli e le censure richieste dalla famiglia (relativi soprattutto agli aspri conflitti con i parenti e alla sessualità dell’autrice) e quella «definitiva» del 2013, più che raddoppiata ma non ancora completa. Una volta di più torna di attualità la discussione sul labile confine tra pubblico e privato, che contraddice l’opinione del grande teorico della diaristica, Maurice Blanchot, per il quale tutto ciò che è stato scritto va pubblicato. La scelta di Alejandra Pizarnik si limitò a rendere pubblica una minima parte dei quaderni (una scelta di brani relativi ai quattro anni più felici della sua vita, trascorsi a Parigi), solo dopo averli riscritti, eliminando i brani sulla madre, trasformando in maschili i suoi amori femminili e cancellando gli spunti più intimi, per imboccare la strada del diario letterario.

Alla seconda e più ampia edizione si è attenuta La noce d’oro, piccola casa editrice nata di recente, che ha suddiviso le 1104 pagine dell’originale in due volumi e manda ora in libreria il primo, Il ponte sognato Diari 1954-1960 (traduzione di Roberta Truscia, postfazione di Ana Becciu, unica curatrice dell’opera postuma, pp. 432, € 20,90), testo centrale, che in un certo senso contiene tutti gli altri.

Quanto e più della corrispondenza selezionata da Bordelois e Piña (Lumen, 2017), i Diari non hanno mancato di generare diverse interpretazioni, proiettando nuova luce su un progetto che non si esaurisce nel percorso poetico, inaugurato nel 1955 con La tierra mas ajena, firmato in copertina con i nomi di Flora Alejandra: il primo ricevuto alla nascita, il secondo scelto da lei e primo segnale di un significativo sdoppiamento. Sin dalle prime pagine affiora una questione che attraversa tutta la scrittura di Pizarnik, ovvero la sensazione di non essere davvero padrona della lingua in cui si esprime: in casa dei Požarnik  – immigrati a Buenos Aires nel 1933 da Rivne (ora in Ucraina), e divenuti Pizarnik per un errore di trascrizione – si parlava in russo e in yiddish, e Alejandra aveva appreso a scuola uno spagnolo povero e convenzionale.

È anche l’ossessione per la parola giusta, quindi, che la porta a tessere nei diari una vasta rete intertestuale, in un dialogo con gli autori letti, citati e commentati (tra i tanti, Proust, Kafka, Vallejo, Nerval, Rimbaud, Lautréamont, Artaud, Novalis e i romantici tedeschi) funzionale all’ apprendistato letterario, che accompagna la sperimentazione delle forme di scrittura a Pizarnik più vicine, come testimoniano i numerosi cambiamenti di registro e di genere, con passaggi improvvisi (a volte in un medesimo brano) dalla narratività alla poesia, o dal dialogo al flusso di coscienza.

Forte di una lunga consuetudine con la psicoanalisi, Alejandra compone il più introspettivo dei diari, è assorta in un’esplorazione di sé che non concede spazio al mondo esterno, e non si lascia sfiorare né dai luoghi in cui vive (mai descritti, mai raccontati), né dalle turbolenze politiche e sociali. Più che il frutto di un narcisismo adolescenziale, questo continuo scrutarsi sembra mosso ancora una volta dall’intenzione letteraria, perché il diario mira palesemente a fondare una figura autoriale , ad affermarne la singolarità e, secondo Cristina Piña, a cercare legittimazione in «un lignaggio di maledettismo e rivolta, fondato sul dolore».

L’autrice procede così alla costruzione del personaggio che intende diventare, per sé e per il mondo, e lo fa tramite differenti performances, presentandosi di volta in volta come figlia incompresa, bambina malata di abbandono, creatura androgina e promiscua, intellettuale che non esita a pronunciarsi, nevrotica che si nutre di psicofarmaci ed evoca il suicidio, artista che insegue la perfezione.

Identità multiple che a volte adottano la prima persona, a volte si rivolgono col «tu» a un’altra Alejandra, oppure la raccontano come fosse un’estranea, sdoppiandosi all’infinito per contemplarsi dall’esterno.

Ma la frase che meglio restituisce la figura della autrice argentina suona così: «Possibilità di vivere? Sì, ce n’è una. È un foglio bianco, è lasciarmi cadere sul foglio, è uscire da me stessa e viaggiare su un foglio bianco». Farsi scrittura, questa l’ambizione, confondersi con essa: il testo diventa metafora ed espressione del corpo, tema fondante dei diari come della poesia, insieme all’infanzia, alla morte, alla solitudine, alla notte, all’amore insoddisfatto, all’ansia di essere riconosciuta e accettata. Nei versi manca, tuttavia, il valore quasi mistico che nei diari è attribuito al sesso, e non c’è traccia del tenace desiderio di scrivere un romanzo, espresso più e più volte nel corso degli anni. Chi affronti il diario non può non rendersi conto che la grande opera in prosa a lungo e inutilmente progettata è in realtà questa, e che Pizarnik, forse consapevolmente e forse no, quaderno dopo quaderno ha scritto il romanzo che meglio dà conto di sé stessa.