Più realista del re, Di Maio resta in Afghanistan
Italia-Usa Il ministro degli Esteri italiano si allinea alla posizione degli Stati uniti prima ancora di conoscerla. «Ce ne andremo da Kabul, il problema è solo quando ce ne andremo»
Italia-Usa Il ministro degli Esteri italiano si allinea alla posizione degli Stati uniti prima ancora di conoscerla. «Ce ne andremo da Kabul, il problema è solo quando ce ne andremo»
Biden vuole fare le valigie e lasciare l’Afghanistan, anche se con qualche mese di ritardo sul previsto. Di Maio, ignaro del contesto e delle scelte Usa, si dice pronto a un ulteriore impegno.
Sono i rischi di chi è più realista del re. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio si allinea infatti alla posizione degli Stati uniti prima ancora di conoscerla. Mercoledì, nella seconda giornata di incontro dei ministri degli Esteri nella sede generale della Nato a Bruxelles, Di Maio ha «confermato l’impegno dell’Italia in Afghanistan». Peccato che neanche l’amministrazione Biden sappia cosa intenda fare nel Paese. Biden ha parlato in modo meno sibillino del solito solo ieri pomeriggio, e senza fornire elementi certi, anche se molto indicativi.
Da settimane è in corso infatti una revisione del dossier-afghano, come spiegato dallo stesso segretario di Stato Usa, Antony Blinken, che martedì a Bruxelles ha invocato la necessità di «rivitalizzare» l’Alleanza atlantica. Quanto all’Afghanistan, ha ricordato che è in corso una revisione del dossier lasciato in eredità da Trump. Il tempo stringe. Mancano poche settimane all’1 maggio 2021, data entro la quale tutte le truppe Usa vanno ritirate dal Paese, come recita l’accordo bilaterale firmato a Doha nel febbraio 2020 tra l’inviato americano, Zalmay Khalilzad, e il numero due dei Talebani, mullah Baradar. Oggi in Afghanistan ci sono circa 3500 soldati a stelle e strisce (i dati ufficiali dicono 2500, ma il New York Times pochi giorni fa ne ha “scovati” altri 1000), parte dei circa 10mila soldati della Nato, tra cui 800 italiani circa. Le decisioni dell’amministrazione Biden coinvolgeranno tutti i soldati, anche gli italiani.
Al ministro degli Esteri Di Maio sembra andar bene qualunque soluzione, pare di capire. Sempre sugli attenti: sia che Biden decida di rispettare l’accordo con i Talebani, sia che, come suggerito ieri, cerchi di prolungare di qualche mese il ritiro completo per incassare qualche risultato sul fronte negoziale tra Talebani e Kabul. Nella conferenza stampa di ieri alla Casa Bianca, Biden ha dichiarato che «per ragioni tattiche, sarà difficile rispettare la scadenza dell’1 maggio», pur ribadendo che non vuole«rimanere lì troppo a lungo». Per poi aggiungere: «Ce ne andremo, il problema è quando ce ne andremo».
Biden non la dice tutta. Ha criticato l’accordo con i Talebani voluto da Trump, ma il predecessore ha soltanto avviato e accelerato quel disimpegno invocato dallo stesso Biden a partire dal 2008-2009. Partito da posizioni interventiste, ha poi criticato l’approccio di contro-insorgenza dei generali Stanley McChrystal e David Petraeus, così come l’aumento (surge) di 100mila truppe tra il 2009 e il 2012. Un orientamento ribadito ieri: nel 2022 continueranno a esserci truppe americane in Afghanistan? «Non riesco a immaginarmelo», ha detto.
Chissà su quali elementi avrà modellato la posizione dell’Italia il ministro Di Maio. Saranno forse bastate le rassicurazioni di Antony Blinken, che a Bruxelles ha dichiarato: «Siamo arrivati insieme, abbiamo aggiustato la rotta insieme e quando il tempo sarà giusto ce ne andremo insieme». Parole simili a quelle adottate il 18 febbraio, nel corso della riunione dei ministri della Difesa della Nato, dal segretario generale Jens Stoltenberg: «Nessun alleato vuole restare in Afghanistan più del necessario, ma non ce ne andremo prima che i tempi siano giusti».
Giusti per fare cosa? Di Maio non sembra esserselo chiesto. Né sembra aver tratto giovamento dalla lettura dei cosiddetti Afghanistan Papers. Più di 2mila pagine – ottenute dal Washington Post tramite il Freedom of Information Act e dopo tre anni di battaglie legali e due ricorsi alla Corte federale – con la trascrizione di appunti e interviste con 428 persone direttamente coinvolte nella guerra, tra diplomatici di alto livello e generali. Duemila pagine, venti anni di frottole: «Facciamo progressi», «netto miglioramento», «questo è l’anno chiave», erano le dichiarazioni ufficiali. Si trattava di vere e proprie manipolazioni della realtà. Perché la guerra afghana è persa da tempo.
Mentre l’amministrazione Biden cerca di uscire dal vicolo cieco con un’offensiva diplomatica rischiosa, perché basata ancora una volta sul calendario americano e non sulle esigenze afghane, forzando la nascita di un governo a interim che rischia di saltare in pochi mesi, il ministro degli Esteri Di Maio, anziché dirsi più realista del re, potrebbe farsi promotore di un’iniziativa diplomatica in Europa. Che sposti l’attenzione dal ritiro delle truppe – inevitabile, che qualcuno lo dica a Di Maio – alla questione politica più rilevante: in che modo l’Italia e l’Unione europea intendono continuare a sostenere uno dei Paesi economicamente e istituzionalmente più fragili al mondo? O varrà forse il vecchio adagio per cui ritirate le truppe viene chiuso il dossier, e che le afghane e gli afghani si arrangino?
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