Che il campo fiscale sia anche e a tutti gli effetti quello della lotta di classe è cosa nota dal tempo dei fratelli Gracchi. Ma si tratta di una evidenza innominabile. La sostanza delle scelte di parte che ripetutamente vi si esercitano è sempre mascherata dalla rappresentazione.

Una rappresentazione con forti connotati ideologici, dell’interesse generale. Ormai da molti decenni questa rappresentazione fa discendere il benessere e il miglioramento delle condizioni di vita dell’intera società da una concentrazione della ricchezza che, una volta messa al riparo da ogni impedimento, lascerebbe filtrare attraverso l’organizzazione del lavoro (e il comando su di essa) risorse e opportunità verso buona parte della popolazione, con l’inevitabile esclusione, temporanea o permanente, di un crescente bacino di povertà da disciplinare poiché ritenuto più o meno colpevole della propria condizione.

Il brivido che ha attraversato la destra che governa l’Italia per l’accidentale e aleatoria emersione della patrimoniale dal recinto dell’innominabile, nel momento stesso in cui migliaia di famiglie venivano escluse dal misero sostegno del reddito di cittadinanza, è l’illustrazione più vivida del costrutto ideologico che ci sovrasta.

Secondo il quale solo questa struttura piramidale sarebbe in grado di garantire una gestione razionale ed efficiente delle risorse e delle potenzialità di sviluppo. In altre parole la diseguaglianza sarebbe tanto più benefica per la crescita economica quanto più estrema e consolidata. E ogni misura volta a contrastarla una zavorra o una regressione.

Nell’affermazione di questo paradigma, che le sinistre non hanno mai osato contrastare radicalmente quando non vi si siano in qualche modo adagiate, consiste quell’egemonia culturale che la destra possiede, fingendo di non saperlo, da almeno una quarantina di anni. E dalla quale discendono tutte quelle retoriche del merito, della competizione, del sistema-paese, dell’eccellenza nazionale che da molti anni ci affliggono.

Le politiche fiscali non scaturiscono dagli astrusi calcoli di qualche squadra di tecnici o di esperti, ma procedono naturalmente da questo retroterra, da un impianto ideologico e dagli interessi che in esso trovano espressione. Di qui l’eclissi di quella tassa sugli extraprofitti che avrebbe dovuto scalfire almeno simbolicamente il portafoglio delle aziende ingrassate con le disgrazie altrui. Al di là dalle diverse formule e dalle mediazioni politiche che dovessero rendersi necessarie è evidente che l’idea stessa di progressività fiscale è in totale contraddizione con il presupposto dominante. Se non si può procedere a cancellarne ogni traccia è per la residua influenza dell’eredità di epoche politiche trascorse. Non perché qualcuno cominci a indicare qualche via di uscita dalla dottrina neoliberale meno ammuffita di vecchie ricette stataliste.

I governi sono da sempre particolarmente affezionati alla tassazione indiretta che è appunto una tassa piatta e colpisce tutti i redditi nella stessa misura, ma con effetti ovviamente differenti sui più e sui meno abbienti. Ad ogni buon conto la nebbia fiscale che avvolge questo terreno risolve diversi problemi di consenso: la tassazione indiretta non ce l’ha con nessuno in particolare. Se, come diceva la Lady di ferro, «la società non esiste, esistono solo gli individui», l’imposizione indiretta si dissolverebbe anch’essa nell’indistinto.

Questo spiega perché il governo italiano, in una fase di crisi e di inflazione non certo dovuta alla dinamica salariale, ma ai costi energetici, all’incremento dei profitti e alla salvaguardia, targata come sempre Bce, della rendita finanziaria, rifiuti di tagliare, per esempio, le accise sui carburanti. Eppure, proprio in queste fasi, le imposte indirette sui consumi e sui diritti (in Italia la nostra “vita legale” fatta di contratti, certificazioni e documenti ha un indecente costo fiscale) grava fortemente sulle condizioni di vita dei cittadini. Questo disagio ha caratteri estesi e “sociali” e, come la storia ci ha insegnato fin dall’antichità, alimenta forti reazioni popolari e movimenti di protesta. La lunga e tenace sfida lanciata dai Gilet jaunes contro Macron ci offre l’esempio più chiaro e recente di conflitto scaturito dall’imposizione fiscale indiretta. E della sua capacità di raccogliere un imponente consenso popolare.

Non c’è da stupirsi che un inasprimento delle imposte che si abbatte anche sugli strati più disagiati della popolazione abbia un potere mobilitante di gran lunga superiore all’indignazione per i favori fiscali elargiti a redditi e patrimoni della fascia più elevata. Ovviamente si tratta di vasi comunicanti: le risorse destinate a una parte vengono sottratte all’altra. Ma la percezione non è così nitida e subitanea come il danno immediatamente subito dai redditi più bassi. Laddove è più facile attendersi una reazione conflittuale.

Disgraziatamente la sinistra ha generalmente condiviso l’affezione statale per la tassazione indiretta quando non la esaltava come forma di partecipazione sociale e coesione patriottica. Non di rado accusando di corporativismo chi cercasse di difendersi dai suoi eccessi. Se davvero si intendesse combattere efficacemente la flat tax converrebbe presidiare le fonti destinate a finanziarla. Impedire di prendere ai più per impedire di dare ai pochi.