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Più che un partito serve una rete di esperienze sociali alternative

Più che un partito serve una rete di esperienze sociali alternativeUn opera di Antony Gormley

Sinistre Le tradizionali culture politiche, gli stessi storici contenitori politici sono oggi improponibili. Vanno trovati altri modelli più che dividersi numeri da condominio

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 13 maggio 2017

«Oggi sinistra è il nome che diamo alle nostre anime belle». Così scriveva Guido Mazzoni dopo l’elezione di Trump, sul sito Le parole e le cose: un lucido saggio, cui affiancherei Populismo 2.0 di Marco Revelli e La lotta di classe dopo la lotta di classe di Luciano Gallino.

Vere e proprie bussole per orientarsi in un mondo in cui la razionalità non è più in grado di comprendere la realtà (altroché l’hegeliano «il proprio tempo compreso con il pensiero»…). “Destra” e “sinistra” in senso lato possono rimandare a due costanti antropologiche diversamente declinate nei secoli: attenzione a conservare le tradizioni versus aspirazione al cambiamento, affermazione di libertà individuale versus realizzazione di rapporti sociali equi. Nell’accezione politica hanno invece una storia più recente, dall’Illuminismo in poi: il termine stesso “sinistra” nasce con la Rivoluzione francese. Ed è collegato a un’altra idea, nata con la concezione ebraico-cristiana del tempo, cioè l’idea di una storia lineare e progressiva, tuttora prevalente nel senso comune. Per di più capitalisticamente identificata con l’idea di sviluppo.

Però, come diceva Nicola Chiaromonte, «la storia muta ma non cambia» e i ciclici corsi e ricorsi storici, sempre diversi ma sempre uguali, nella fase del declino non salvano dalla barbarie. Nel II secolo Roma contava 1.200.000 abitanti, nel 1527 solo 50.000… Mi sembra che il mondo occidentale sia caduto in una di quelle catastrofi periodiche che segnano il passaggio da un’epoca all’altra: solo che oggi tutto è a livello planetario.

La fantasmagorica crescita della tecnica ci ha fatto smarrire il senso del limite, della realtà e dei rapporti umani. L’unico spazio pubblico rimasto è quello solitario dello schermo del computer e dei narcistici social network, che tutto sono salvo che sociali. I grandi temi della controcultura degli anni Sessanta e Settanta -l’autorealizzazione, l’abolizione dei divieti, l’emancipazione da vincoli secolari quando non millenari, l’appagamento dei desideri come diritto e valore rivoluzionario o comunque politico – negli anni sono diventati la bandiera ideologica e l’alibi dell’élite al potere oggi in Occidente, pantografata da Martin Scorsese in The Wolf of Wall Street. Ma già Simone Weil ammoniva: «Nella natura delle cose non è possibile alcuno sviluppo illimitato. Il mondo riposa del tutto sulla misura e l’equilibrio. La stessa cosa accade nella città». Cioè nel sociale e nel politico. Ma inutile farsi illusioni: i due campi (che non vanno confusi) sono devastati dalla selvaggia globalizzazione neoliberista, o comunque la si voglia chiamare (per un approfondito chiarimento della questione, che non è solo nominalistica, rinvio a Il rovescio della libertà, di Massimo De Carolis).

Le tradizionali culture politiche, gli stessi storici contenitori politici sono ormai improponibili, e non solo perché il collasso interno li ha resi irriconoscibili: tutta la recente storia del Pd è esemplare e, come anche i vari tentativi di creare un’alternativa a sinistra, denuncia l’esaurimento di quel modello.
Il sociale è frantumato e sfibrato dall’impoverimento crescente, dalla disoccupazione giovanile, dalla crisi, lucidamente perseguita con baldo entusiasmo anche dai partiti sedicenti di sinistra, del sistema di garanzie del Welfare, bollato oggi come “stato assistenziale”. Dall’abolizione di ogni organismo intermedio tra società e Stato. E dall’ immigrazione dei dannati della terra e di chi cerca di salvarsi dalle nostre guerre.

Di questo sfrangiamento è causa anche la chiusura delle grandi fabbriche e la conseguente disseminazione della forza operaia, ormai disgregata, sotto ricatto e senza uno spazio collettivo che non era solo di lavoro ma pure di dibattito, di lotta e di mobilitazione, anche nella sua proiezione nella città.

E forse ancor più angoscia l’anestetizzazione verso la sofferenza degli altri: si comincia da qui e si arriva in fretta, ci stiamo arrivando, in molti paesi europei e della Nato (Turchia, anche coi nostri soldi) ci siamo già arrivati, ai campi di concentramento. Edith Bruck, in una recente intervista, si domanda: «Che cosa deve ancora succedere?». Guardando le foto dei cadaveri galleggianti sul mare non ci dice più nulla la tremenda constatazione di Simone Weil: «C’era qualcuno e, un istante dopo, non c’è più nessuno»?

Alle svolte epocali della storia non si sfugge. Però, come recita un detto friulano citato spesso da Claudio Magris, morir si deve, morir bisogna, mostrar il cul senza vergogna. Allora forse si può resistere comunque, con approcci nuovi o ripresi dalla tradizione libertaria socialista e anarchica, ma anche dal comunitarismo americano, alla Christopher Lasch, un conservatore di sinistra, autore tra l’altro di un profetico saggio sul narcisismo. Ma senza andar troppo lontano si potrebbero rileggere Gobetti e Gramsci. Soprattutto avendo sempre come base programmatica l’attuazione della nostra Costituzione. In fin dei conti gli italiani si sono risvegliati in massa dalla loro apparente apatia solo nel 2006 e nel 2016 per rifiutare stravolgimenti della Carta. E lascia esterrefatti che il ceto politico in toto non abbia tenuto conto della formidabile mobilitazione, soprattutto giovanile, del dicembre scorso: un ulteriore sintomo dello stato comatoso dei nostri partiti e del nostro parlamento. Così ci stiamo giocando le nuove generazioni. Cominciamo allora a rompere l’uniformità con le differenze, a disseminare ovunque sia possibile forme di contropotere organizzato (produttive, distributive, ecologiche, ambientali, di resistenza passiva) e cercare di collegarle tra loro per integrazioni successive.

E soprattutto dovremmo tutti recuperare la dimensione dell’alterità. Ricordandoci che adempiere gli obblighi verso gli altri è socialmente più fecondo che rivendicare un diritto. Come scriveva Anna Maria Ortese «La vita di un paese non è fattibile senza un impegno morale – oh, assai prima che politico».

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