Pione Sisto, rifugiato vichingo e africano, protagonista ai Mondiali
Cella di rigore Avrebbe meritato il goal contro l’Australia. I commentatori gli hanno assegnato unanimemente un dignitosissimo sei e mezzo. Pione Sisto è nato in Uganda ventitre anni fa, ma in Uganda era […]
Cella di rigore Avrebbe meritato il goal contro l’Australia. I commentatori gli hanno assegnato unanimemente un dignitosissimo sei e mezzo. Pione Sisto è nato in Uganda ventitre anni fa, ma in Uganda era […]
Avrebbe meritato il goal contro l’Australia. I commentatori gli hanno assegnato unanimemente un dignitosissimo sei e mezzo. Pione Sisto è nato in Uganda ventitre anni fa, ma in Uganda era solo di passaggio. La sua numerosa e unita famiglia fuggì dal Sud del Sudan quando lui era ancora nella pancia della mamma. Scappavano dalla guerra, dalla violenza. Aveva pochi mesi di vita quando lui, i suoi genitori e i suoi sette fratelli, dopo una traversata del deserto, un lungo e pericoloso viaggio nel mar Mediterraneo e infine l’attraversamento di mezza Europa, riuscirono ad arrivare a Hoejslev Stationsby, piccolissimo villaggio di campagna nella regione danese del Midtjylland.
A quel tempo l’Europa non era ancora una fortezza inespugnabile. A quel tempo la Danimarca era all’avanguardia nell’accoglienza dei rifugiati politici.
Vent’anni dopo, nel 2015, Pione Sisto diventa la punta di diamante del Midtjylland, squadra della serie A danese che quell’anno vinse il campionato. L’anno prima la Danimarca gli aveva concesso la cittadinanza.
In queste settimane Pione Sisto, stella del Celta Vigo, rappresenta la Danimarca vichinga ai mondiali (oggi in campo contro la Francia), lui che di biondo non ha nulla, alla faccia di tutti i puristi della razza. Pione gioca a volte con le scarpe slacciate. Ha bisogno di spazio per i suoi piedi. Contro il Perù, dopo il goal decisivo di Poulsen, viene sostituito. Chissà che avranno pensato Lobolohitti, Margaret, Akari, Cathy, Angelo, Lopunyak, Adeleide e Regina, i suoi sette fratelli tutti in tribuna a tifare Danimarca con canti e balli africani.
Pione Sisto è un rifugiato. La sua famiglia giunse in Danimarca quando il Paese era accogliente, aperto, esempio di un welfare inclusivo. Poi però in Danimarca, come in tutta Europa, è arrivata al governo la destra xenofoba, con la ministra dell’integrazione del partito Venstre che nel 2015 propose la cosiddetta “Legge sui gioielli”, in base alla quale i richiedenti asilo avrebbero dovuto pagarsi le quote di permanenza nei centri per immigrati consegnando i loro oggetti di valore.
Nonostante tutto, però, la Danimarca, però, è ancora paese leader nella prevenzione della tortura. A fine maggio ha autorizzato preventivamente la pubblicazione dei rapporti del Comitato europeo per la prevenzione della tortura che andrà in visita nel paese scandinavo nel 2019. I danesi si sentono sicuri del proprio modello aperto di reclusione, rispettoso della dignità umana. Un modello che resiste alle derive nazionaliste.
La vita in carcere in Danimarca è perlopiù responsabilizzante, non infantilizzante. Ad esempio, il detenuto ha una gestione personale dei soldi che riceve dai propri parenti, non come in Italia dove il detenuto è trattato al pari di un bimbo a cui viene data la paghetta. Il tasso di detenzione in Danimarca continua a essere fortunatamente basso, ossia 59 detenuti ogni 100 mila abitanti. Vi sono meno detenuti rispetto ai posti letto regolamentari. La percentuale degli stranieri in carcere è pari al 28%, più o meno in linea con la media europea.
Pione Sisto, quando ancora militava nel Midtjylland, nel 2016 segnò una rete straordinaria al Manchester United, in Europa League. Dopo aver dribblato un paio di difensori inglesi mise la palla in un angolo della porta. Sembrava un colpo di biliardo. Lui non è il solo rifugiato politico che gioca ai mondiali. Nella ipotetica nazionale rifugiati stilata dall’associazione Fare Network c’è anche una grande star del calcio come Luka Modric, autore di una delle tre reti che ha mandato nella disperazione squadra e popolo argentino. Luka Modric ha vissuto da bambino in un hotel per rifugiati – l’hotel Kolovare – e in quell’hotel comunque, tra bombe e tragedie, giocava a pallone.
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