Piccoli semi crescono in Tanzania
Storie Diario di un viaggio nell’ambito di un progetto che punta a sviluppare nuovi modelli agricoli sostenibili basati sul ruolo dei singoli contadini e delle famiglie rurali. Per non vivere dei resti di una civiltà che non ha mai smesso di colonizzare
Storie Diario di un viaggio nell’ambito di un progetto che punta a sviluppare nuovi modelli agricoli sostenibili basati sul ruolo dei singoli contadini e delle famiglie rurali. Per non vivere dei resti di una civiltà che non ha mai smesso di colonizzare
L’aeroporto di Dar es Salaam – la Capitale di fatto della Tanzania – alle 3 di notte si presenta quasi spettrale. Deserto e pochissimo illuminato – come tutta la città, scoprirò poco dopo – dà una sensazione angosciante.
Al mattino la luce del giorno amplifica la sensazione appena attenuata dalla moltitudine e dalla vivacità dei colori. A piedi o in taxi, le strade rendono in tutta evidenza le condizioni di povertà di questo paese. Folle di persone che camminano apparentemente senza meta lungo le strade prive di marciapiedi in piste polverose di terra battuta. Piccole attività commerciali svolte lungo le stesse strade, dove, in maniera del tutto precaria, si vende di tutto: oggetti vari, frutta e ortaggi, vestiti.
Sono qui perché con alcune Facoltà di agraria di università italiane e di altri paesi europei e africani, si sta organizzando un progetto di ricerca e attività pilota aventi per obiettivo l’individuazione di nuovi modelli di sviluppo sostenibile dell’agricoltura basati sul ruolo dei piccoli contadini e delle famiglie rurali nella produzione agricola e nella sicurezza alimentare.
Il progetto ha come elemento di forza la partecipazione di università e associazioni di piccoli contadini europee e africane. L’ambizione è quella d’identificare, sperimentare, dimostrare e divulgare i risultati di nuovi percorsi di sviluppo e di organizzazione della produzione agricola e della distribuzione nei diversi contesti economici, sociali e culturali.
No alle multuinazionali dei polli
Elizabeth è la titolare di una piccola attività. Alleva polli insieme a piccoli contadini sul territorio. Gli uffici si trovano nella periferia di Dar. Le strade sono sconnesse con enormi pozzanghere piene di acqua. La pioggia si alterna con il sole rapidamente. È una casa con un recinto e un cancello. C’è fango. È complicato entrare e uscire dalla macchina per raggiungere l’uscio senza infangarsi.
Nell’edificio si svolgono anche parte delle attività che consistono nell’incubare le uova, allevare pulcini, macellare i polli e venderli. Mentre racconta capisco che è una donna preparata, decisa, competente. La sua piccola impresa è collegata con piccoli contadini ai quali fornisce pulcini e provvede a ritirare i polli da macellare. Ha idee chiare. È impegnata socialmente, rifiuta gli ammiccamenti delle multinazionali dei polli ibridi e le loro offerte di collaborazione che forse le darebbero animali a più rapido accrescimento ma toglierebbero a lei e agli altri contadini l’indipendenza e la libertà di riprodurre e allevare le tante razze ed ecotipi presenti dappertutto in Tanzania.
La Sokoine University of Agriculture è a Morogoro una città a circa 200 km da Dar. Ishengoma, il tassista con cui mi ero messo d’accordo mi viene a prendere alle 6 di mattina per essere puntuale, alle 11.00, all’appuntamento con alcuni docenti e ricercatori della Facoltà. La strada che alterna tratti sconnessi con percorsi abbastanza agevoli si inoltra lentamente nelle campagne. Nella periferia leggermente collinare della città, appena finita la sterminata area di piccole casette disordinatamente distribuite, che costituiscono la grande periferia dove vive l’80% degli oltre 3 milioni di abitanti di Dar, ci sono numerose ville che costituiscono una delle aree residenziali di lusso insieme ad altre verso il mare.
Il giorno prima avevo avuto modo di vedere a Dar centri commerciali di tipo occidentale. Le stesse dimensioni, le medesime caratteristiche. Potresti essere in qualsiasi paese europeo senza accorgertene. I prodotti sono quasi gli stessi. I marchi sono pressoché i medesimi che puoi trovare in ogni shopping center occidentale. Anche i prezzi sono gli stessi e anche più cari.
Chiedo a Ishengoma come funziona il sistema sanitario, cosa fa quando qualcuno della sua famiglia, i suoi bambini hanno bisogno di un medico e di medicine. Mi dice che non esiste un servizio sanitario pubblico che garantisca assistenza a tutti. Esistono alcuni piccoli ospedali pubblici (poco più che ambulatori) sul territorio ma non offrono servizi medici affidabili e non hanno medicinali per cui bisogna poi rivolgersi agli ospedali privati e pagare medico e medicine. Così lui quando ha bisogno si rivolge direttamente all’ospedale privato. E chi non può pagare? Guarisce da solo o muore, mi risponde. Questa è la condizione della stragrande maggioranza della popolazione.
Chiedo del sistema scolastico. Esistono le scuole pubbliche per i bambini ma sono di pessima qualità. I bambini il più delle volte non imparano quasi niente perché essendo gli insegnanti pagati pochissimo quei pochi che accettano di insegnare sono quelli che non sono riusciti a insegnare nelle scuole private. Sono spesso assenti perché devono fare altri lavori contemporaneamente o perché vanno alla ricerca di una scuola privata per insegnare.
Una visione critica e articolata
All’Università, immersa in un’ampia area verde, la riunione è molto interessante. I partecipanti sono docenti e ricercatori di discipline agronomiche ed economiche. Un giovane docente ha un PhD ottenuto a Wageningen in Olanda, la facoltà di agraria in Europa dove i temi dell’agricoltura sostenibile e il ruolo dei piccoli contadini sono da tempo studiati e le elaborazioni del gruppo di studiosi che fa capo a Jan van der Ploeg, sono conosciuti in tutto il mondo. Molti docenti hanno esperienze internazionali e una visione critica e articolata. Hanno profonda conoscenza dei temi dello sviluppo sostenibile e consapevolezza dei limiti del modello dominante.
Al ritorno, attraversando i tanti villaggi fatti di piccoli agglomerati di casupole, Ishengoma mi spiega che qui non esistono acquedotti, naturalmente neanche a parlare di fogne, né luce elettrica, né gas. Usano molto carbone di legna che costituisce una delle tante micro attività che si legano alla sua produzione e alla sua commercializzazione. C’è anche un micro commercio di acqua in bidoncini di plastica di cui ovviamente nessuno controlla provenienza e igienicità. E pensare che l’acqua non manca. Ce n’è in abbondanza. Basta perforare il suolo a 20 – 30 metri.
Gli sgangherati ricoveri non proteggono neanche dalla pioggia. Essi sono arrangiati con i più svariati materiali di fortuna. Pezzi di lamiere contorte semi-arrugginite, vecchi cartelloni pubblicitari, spezzoni di teli di plastica, pezzi di legno.
Devastazione di identità
Quello che in queste aree sembra caratterizzare la vita di milioni di persone di oggi rispetto alla storia millenaria che non è stata certamente più facile di adesso è che prima vivevano nel loro mondo fatto di cose loro che appartenevano alla loro cultura, alla loro storia, alla loro identità, alla loro civiltà per quanto dura e difficile potesse essere. Oggi essi sembrano vivere dei resti, per non dire dei rifiuti, dei simboli, dei peggiori segni di una cultura, di una civiltà che non gli appartiene, che non ha nessun legame con la loro. Ma che riesce a suggestionarli e a irretirli. È qualcosa di estraneo che pervade e stravolge il loro mondo, le loro vite, senza che i più ne abbiano la minima consapevolezza.
Devastazione, credo sia la parola appropriata. Devastazione di identità, di culture, di territori, di sentimenti, di vite. Cambiano le modalità e le forme, ora più subdole e sottili nel loro essere in fondo accattivanti, ma il significato e gli effetti di tutto ciò non credo siano molto diversi dalle azioni dei colonizzatori europei e del colonialismo dei secoli passati.
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