Dall’inizio dell’ultima aggressione di Israele a Gaza, il regime egiziano è nuovamente sotto i riflettori. Molti si chiedono perché Il Cairo stia effettivamente sostenendo la guerra genocida di Tel Aviv chiudendo il valico di Rafah. La posizione del regime è comprensibile se si tiene conto di come i poteri al Cairo percepiscono i palestinesi: come fonte di minaccia, instabilità e ispirazione per gli egiziani a ribellarsi. La causa palestinese è sempre stata un fattore radicalizzante per l’opinione pubblica egiziana. La maggior parte, se non tutti, i punti di svolta nella storia della dissidenza della nazione araba più popolosa sono stati, direttamente o indirettamente, il risultato di una reazione a catena innescata dalla resistenza palestinese e dalla mobilitazione popolare.

La maggior parte della letteratura che discute del 1968, l’anno della rivolta globale, tende a concentrarsi sul maggio francese e sulla crescita dei movimenti sociali in Europa e negli Stati uniti. Tuttavia, anche il mondo arabo ha avuto il suo 1968, di cui si parla raramente. Delusi dal regime di Gamal Abdel Nasser dopo la sconfitta militare del 1967 ad opera di Israele, gli studenti e i lavoratori egiziani – in particolare a Helwan, a sud del Cairo, uno dei focolai storici di militanza industriale – si unirono agli studenti universitari in proteste di massa che conquistarono le strade nel febbraio 1968, chiedendo che i vertici dell’esercito e lo stesso Nasser si assumessero le loro responsabilità. Ribellione che venne spenta con la repressione, ma anche con promesse di riforme democratiche, annunciate da Nasser nel suo cosiddetto Manifesto del 30 marzo.

Un’altra ondata di proteste anti-regime scoppiò in novembre dello stesso anno ad Alessandria, più intensa di quella di febbraio, trasformando le strade della città costiera in una zona di battaglia con le forze di sicurezza. Vennero chiamati elicotteri dell’esercito, che volavano a bassa quota per terrorizzare gli studenti. I giornali furono pronti a denunciare i manifestanti come «agenti israeliani». Queste due ondate di proteste furono tra i principali fattori che spinsero Nasser a dichiarare la “Guerra di Attrito” contro le truppe di occupazione israeliane nel Sinai. Ma segnarono anche l’inizio della “Terza ondata del comunismo egiziano”. Nuove organizzazioni dissidenti cominciarono a coalescere e giocarono un ruolo centrale nelle rivolte studentesche del 1971-73, che spinsero il successore di Nasser, Anwar Sadat, a lanciare una guerra limitata per liberare parti della penisola del Sinai.

La guerra fornì a Sadat una certa autorità per presentarsi temporaneamente come liberatore nazionale, ma ben presto la questione sociale venne alla ribalta. Nel 1974, Sadat intraprese il primo tentativo di transizione neoliberale del regime, denominato “Politica della Porta Aperta” o Infitah. L’anno successivo, il movimento sindacale iniziò a reagire, con scioperi di massa a Helwan, Shubra e Mahalla. La serie di scioperi e proteste studentesche preparò il terreno per la “Intifada del Pane” del 1977, che vide uno sciopero nazionale e due giorni di scontri di strada con la polizia in tutto il paese, scatenati dalle misure di austerità. Sadat dovette annullare i suoi decreti neoliberali e inviare l’esercito per reprimere la rivolta.

La Palestina è sempre stata presente sullo sfondo come fattore rivoluzionante. La battaglia di Karameh del marzo 1968, in cui i Fedayeen sconfissero una forza israeliana sulla riva orientale del fiume Giordano, fornì una fonte di ispirazione per il nascente movimento sociale in Egitto. I manifestanti studenteschi facevano confronti tra la resistenza eroica dei palestinesi e le prestazioni deludenti delle convenzionali armate egiziane e arabe nel 1967. Tali confronti venivano regolarmente sollevati negli anni successivi, quando gli studenti si rivolgevano a Sadat denunciando la sua indolenza nella lotta per la liberazione. Il messaggio era: se i palestinesi potevano farcela, perché non noi?

Il movimento sociale nato da questi eventi e che ha causato la reazione a catena culminata nella rivolta del 1977, fu guidato da ex membri di gruppi studenteschi di sinistra chiamati “Sostenitori delle Società della Rivoluzione Palestinese”.Dopo aver soffocato la rivolta, Sadat si affrettò a stipulare un trattato di pace con Israele, alla disperata ricerca del sostegno degli Stati uniti per mantenere in piedi il suo regime. Fu assassinato nel 1981. A malapena qualcuno presenziò al suo funerale, e i suoi assassini citarono come movente il suo tradimento e l’aver venduto i palestinesi. La sconfitta della rivolta del 1977 segnò effettivamente la fine della Terza Ondata Comunista, anche se la sua fine ufficiale è solitamente segnata dal crollo dell’Unione Sovietica e del blocco stalinista nel 1991.

Gli anni ’80 in Egitto furono anni stagnanti, non solo in relazione all’economia, ma anche per quanto riguarda le lotte sociali. Esplosioni spontanee di proteste anti-regime si verificarono principalmente nei campus universitari, scatenate dalla causa palestinese. Tuttavia, con l’inizio della Prima Intifada palestinese, il dissenso politico riprese vigore. Proteste coinvolsero i campus egiziani e i sindacati professionali in solidarietà con i palestinesi, scontrandosi presto con le forze di sicurezza del regime. Scontri che generarono rabbia e richieste di democrazia, smantellamento dell’apparato di sicurezza e interruzione dei legami con Israele, che aveva stabilito una missione diplomatica a Giza, a pochi passi dall’Università del Cairo.

Le proteste erano così forti che il Ministro dell’Informazione di Hosni Mubarak, Safwat el-Sharif, emise direttive alla televisione di stato per limitare la copertura delle notizie legate alla Palestina. Il regime utilizzò anche il sostegno di Yasser Arafat all’invasione irachena del Kuwait nel 1990 per diffamare e demonizzare i palestinesi.

La Guerra del Golfo del 1991 guidata dagli Stati uniti e la successiva Pax Americana inflissero un duro colpo all’Intifada palestinese e rafforzarono i procuratori statunitensi nella regione, incluso Mubarak. Non possiamo separare la soppressione della prima Intifada palestinese dall’inizio del Processo di Oslo e dall’incremento del potere dei regimi arabi locali. Non è una coincidenza che la prima Guerra del Terrore in Egitto sia stata lanciata nel 1992, nello stesso anno in cui il regime intraprese la sua transizione neoliberale sotto il patrocinio del Fmi e della Banca Mondiale. Sebbene l’obiettivo dichiarato fosse combattere una ribellione islamista da parte della Gamaa Islamiya e della Jihad islamica, il regime prese di mira tutte le forme di dissenso.

Gli anni del mio corso di laurea iniziarono nel 1995, al culmine della controinsurrezione. Il Cairo era sotto occupazione della polizia tutto il giorno: posti di blocco, perquisizioni casuali, omicidi, arresti di massa. I partiti politici di opposizione erano sotto assedio. Le azioni industriali crollarono. I sindacati professionali furono portati sotto il controllo dello Stato. I dissidenti venivano processati in tribunali improvvisati. E nessuno poteva neanche sussurrare il nome di Mubarak, né in un canto di protesta, né in un articolo di giornale, né in una conversazione telefonica.

Come siamo passati da una situazione del genere a una rivolta che ha rovesciato Mubarak e la sua famiglia un decennio dopo, nel 2011? Ancora una volta, è stata la Palestina.

L’inizio della Seconda Intifada, il 28 settembre 2000, ha generato onde d’urto che hanno attraversato la regione, compreso l’Egitto. Gli arabi vedevano i loro regimi o come impotenti di fronte all’aggressione israeliana o, più accuratamente, complici nella sottomissione dei palestinesi.

Attraverso il moltiplicarsi di stazioni televisive satellitari come Al-Jazeera, milioni di egiziani guardavano dalle proprie case immagini in diretta delle atrocità israeliane e dei bambini palestinesi che affrontavano i carri armati. E iniziarono immediatamente a fare dei paralleli tra l’oppressione dei palestinesi per mano del regime israeliano di apartheid e la repressione che gli egiziani subivano sotto il governo di Mubarak. Conclusero che se quei ragazzi potevano affrontare i potenti carri armati dell’esercito israeliano, noi possiamo affrontare i veicoli blindati della polizia di Mubarak.

Proteste di solidarietà di massa scoppiarono nei campus universitari egiziani durante la prima settimana di ottobre 2000. Persino studenti delle scuole superiori e bambini dell’asilo si riversarono per le strade sventolando bandiere palestinesi. I sindacati professionali, inattivi negli anni precedenti, videro una rinascita di attivismo. Ma questa rinascita della politica di strada fu accolta con una repressione brutale. La polizia stroncò le proteste e effettuò arresti di massa degli organizzatori studenteschi. Questa fu la mia prima esperienza di detenzione e tortura da parte della Polizia.

Le proteste si placarono temporaneamente, solo per riaccendersi nell’aprile 2002 quando Ariel Sharon inviò i suoi carri armati in Cisgiordania, lasciando dietro di sé una scia di sangue e facendo carneficina a Jenin e in altre città. Per due giorni, gli studenti egiziani combatterono la polizia in scontri di strada a Giza, in quella che fu chiamata la “Intifada dell’Università del Cairo”. Fu la prima volta che sentii migliaia di persone cantare contro Mubarak: “Hosni Mubarak è proprio come Sharon. È la stessa figura! È dello stesso colore!”

L’onda di proteste fu di nuovo repressa con la forza, ma qualcosa stava già cambiando nell’umore pubblico. Il muro di paura che Mubarak aveva eretto nei due decenni precedenti stava lentamente crollando. Le organizzazioni attiviste nei campus e non solo stavano crescendo, creando un collegamento il regionale (Palestina e Iraq) con il locale.

Con l’invasione dell’Iraq, decine di migliaia di persone scesero in strada nella capitale e nelle province, in quelle che furono le più grandi proteste mai viste in Egitto dal 1977. Di nuovo, due giorni di scontri di strada con le forze di sicurezza nel centro del Cairo videro i manifestanti bruciare i poster di Mubarak, strappare le bandiere del suo Partito Nazionale Democratico e combattere le truppe antisommossa con i sassi, proprio come i palestinesi. Piazza Tahrir fu conquistata per due giorni, in quello che fu un assaggio generale della rivolta di un decennio dopo.

Nei tre anni successivi, queste mobilitazioni per la Palestina e l’Iraq crearono per gli attivisti egiziani uno spazio in cui potevano organizzarsi e tenere azioni di strada, cosa che in passato era impensabile. Non è una coincidenza che il movimento anti-Mubarak “Kefaya” (arabo per “Basta”) sia stato lanciato sulla scia di tali mobilitazioni, nel dicembre 2004, dagli stessi organizzatori che guidarono i movimenti pro-Palestina e contro la guerra in Iraq. Il regionale stava diventando il locale.

Kefaya organizzò azioni di strada, attirando studenti, professionisti della classe media e intellettuali, ma ebbe più difficoltà a radicarsi nella classe lavoratrice egiziana. Tuttavia, il movimento adottò la strategia consapevole di diffondere le immagini del dissenso attraverso i media mainstream e Internet al più vasto pubblico possibile all’epoca, per innescare un effetto domino. Tali immagini di decine (e a volte centinaia) di persone che cantavano contro Mubarak e bruciavano i suoi poster elettrificarono il paese. Distrussero il tabù di Mubarak una volta per tutte e lanciarono un messaggio: coloro che detenevano l’autorità potevano essere sfidati, che fosse nel governo o sul posto di lavoro.

È in questo contesto che 3000 operaie del settore tessile entrarono in sciopero a Mahalla, nel cuore del Delta del Nilo, nel dicembre 2006, con delle rivendicazioni economiche. Incoraggiarono i loro colleghi maschi ad agire, e presto l’intero stabilimento tessile andò in sciopero. La loro vittoria dopo tre giorni scatenò il più grande e duraturo sciopero mai visto in Egitto dal 1946.

Questi scioperi si sono trasformati in due rivolte provinciali nel 2008, a Mahalla e Borollos, dove i manifestanti strapparono dai muri i poster di Mubarak. Gli scioperanti superarono rapidamente il campo economico per entrare in quello politico. Gli organizzatori industriali partecipavano regolarmente anche alle azioni di solidarietà con la Palestina.

Questo è stato il movimento sociale che ha aperto la strada alla rivolta di gennaio 2011 che ha infine rovesciato Hosni Mubarak. A Tahrir, le bandiere palestinesi erano presenti in quasi ogni mobilitazione, mentre i leader israeliani piangevano la perdita di Mubarak e osservavano con timore come si svolgeva la rivoluzione egiziana. Lo stesso anno, l’ambasciata israeliana al Cairo è stata assaltata due volte dai rivoluzionari, che chiedevano la fine dei legami diplomatici con Tel Aviv.

Il colpo di stato militare, guidato dal all’epoca Ministro della Difesa Abdel Fattah al-Sisi, cercò di porre fine alla rivoluzione e a qualsiasi causa sposatadai rivoluzionari. In cima alla lista naturalmente c’era la Palestina, il principale fattore di radicalizzazione per i giovani egiziani.

Mentre al-Sisi intraprendeva i suoi massacri controrivoluzionarie nella seconda metà del 2013, stringeva anche l’assedio di Gaza, demonizzava Hamas nei media e collaborava effettivamente con Israele nella sua guerra del 2014 a Gaza. Tel Aviv accolse con entusiasmo la notizia del colpo di stato, stabilì una stretta amicizia politica ed economica con il nuovo regime e presentò al-Sisi negli Stati uniti e in Occidente come l’unica speranza per salvare l’Egitto dai “terroristi”. In cambio, il generale permetteva all’aviazione israeliana di operare nel Sinai, conducendo centinaia di attacchi contro presunti obiettivi terroristici.

Hamas, tuttavia, si dimostrò resiliente, nonostante l’assedio egiziano-israeliano. Poiché stava subendo pesanti perdite nella sua campagna contro-insurrezionale nella penisola del Sinai contro lo Stato Islamico, al-Sisi fu costretto a rivolgersi a Hamas nel 2017 per aiutarlo a controllare il confine e interrompere il flusso di salafiti di Gaza – che odiano Hamas – in Egitto per partecipare all’insurrezione contro l’esercito egiziano.Nonostante questo avvicinamento e il parziale alleviamento dell’assedio, la situazione umanitaria rimase disastrosa a Gaza. Nel frattempo, al-Sisi cercava di presentarsi al nuovo presidente degli Stati Uniti Joe Biden come un mediatore credibile, capace di mediare tregue o accordi di pace tra Israele e i palestinesi, nel tentativo di recuperare parte della perduta influenza regionale dell’Egitto.

L’esplosione della guerra lo scorso ottobre ha visto al-Sisi chiudere nuovamente il valico di Rafah e permettere solo a una frazione di coloro che sono rimasti feriti a Gaza di recarsi in Egitto per ricevere cure mediche, e solo dopo l’approvazione della lista dei nomi da parte di Israele. Il minimo di aiuti che arrivano a Gaza è prima ispezionato dalle truppe israeliane. Il Cairo è di fatto parte dello sforzo bellico di Israele.

Ma tra gli egiziani, il sostegno schiacciante ai palestinesi rimane. Bandiere palestinesi sono visibili su auto, negozi e merchandising. Le campagne di boicottaggio contro i marchi internazionali che sostengono Israele si stanno espandendo.  Durante la prima settimana dell’assalto a ottobre, sono scoppiate proteste spontanee per le strade del Cairo e delle province, che hanno sorpreso le forze di sicurezza. I campus universitari, dove la dissidenza era stata soffocata per anni, hanno visto dimostrazioni degli studenti che non avevano mai protestato prima.

Il regime ha cercato di dirottare l’ondata di proteste e ha invitato a manifestazioni sponsorizzate dallo Stato, il 20 ottobre, per sostenere gli sforzi diplomatici di al-Sisi, raffigurandolo come difensore della sicurezza nazionale. Ma gli si è rivoltato contro. Per la prima volta in circa un decennio, gli egiziani si sono riversati in massa in Piazza Tahrir, ripetendo i cori della rivoluzione di gennaio 2011. Dopo essere stati dispersi dalle truppe antisommossa, i manifestanti hanno strappato i poster di al-Sisi nel centro del Cairo e ci sono stati brevi scontri di strada con le forze di sicurezza. Le proteste si sono placate, almeno per ora. Ma una pietra è già stata lanciata nelle acque ancora calme. Una nuova generazione di attivisti è nata in Egitto, che ha davanti a sé una lunga strada per ravvivare completamente il movimento rivoluzionario. E ancora una volta, lo dobbiamo alla Palestina.