Se si vuole sintetizzare in una circostanza specifica la prodigiosa carriera di Philip Roth, è probabile che la si debba individuare nell’assegnazione del premio Pulitzer per la narrativa del 1998. I giurati si trovarono a dover scegliere tra quelli che rimangono forse, nella memoria collettiva, i due più grandi romanzi americani degli ultimi vent’anni. A vincere fu Roth, con Pastorale Americana, mentre il grande sconfitto fu Underworld, di Don DeLillo. Prescindendo da qualunque valutazione di ordine qualitativo – probabilmente inutile, di fronte a opere di questa portata – il successo di Roth ha tanto più oggi il valore di un vero e proprio spartiacque: a perdere la contesa, con Underworld, fu il romanzo-mondo, il megathon novel erede di una gloriosa tradizione che include alcuni capisaldi del postmoderno come Le perizie di Gaddis o L’arcobaleno della gravità di Pynchon; a prevalere, con Pastorale americana, fu essenzialmente un romanzo di famiglia, nel quale Roth si confrontava ad armi pari con l’amico e rivale John Updike ma soprattutto inaugurava una vera e propria «nuova tradizione», che ha nel Jonathan Franzen delle Correzioni e di Libertà o nel Jonathan Safran Foer di Eccomi i suoi esponenti più convinti.

Pastorale americana rimane oggi, a trent’anni da quel Premio Pulitzer, il libro più letto di Roth – e il più amato, insieme a Lamento di Portnoy e (forse) a Il teatro di Sabbath, anche se la fama dell’autore si era già consolidata in precedenza, se è vero che nel 1994 Harold Bloom aveva incluso ben sei suoi titoli all’interno del proprio Canone occidentale. Per comprendere il fascino e la centralità di Pastorale, anche a prescindere dalla «leva» immediata rappresentata dal conferimento del Pulitzer, è allora necessario ripensarne la struttura, le dinamiche interne e la collocazione all’interno della traiettoria dell’autore.

UN PERCORSO NARRATIVO, quello di Roth, particolarmente complesso, segnato da irrequietudini, spinte sperimentali e da un dialogo costante con la cultura e le tendenze letterarie di un cinquantennio e più. Erede e al tempo stesso decostruttore della tradizione ebraico-americana, Roth aveva contribuito – soprattutto nella prima fase della sua carriera, o quanto meno a partire da Lamento di Portnoy – a introdurre uno dei temi fondamentali del dibattito sul nuovo sperimentalismo che avrebbe dominato tutti gli anni Sessanta e buona parte dei Settanta. Il realismo di maestri quali Bellow e Malamud gli appariva non tanto contestabile per motivazioni formali, quanto superato e reso inattuale dallo sviluppo stesso della società americana, contraddistinta da un’inarrestabile velocizzazione delle relazioni come della trasmissione dei messaggi culturali, e dalla conseguente frammentazione e dispersione dell’identità. Identità che, in molti dei migliori romanzi di Roth, ci viene presentata attraverso il filtro dell’ossessione erotica e del sesso, in un percorso di indagine nel quale la polemica contro il perbenismo della società americana, il perseguimento del piacere e la scoperta di sé coincidono e si rafforzano a vicenda.

Questa posizione critica si era tradotta nello slancio sperimentale che Roth aveva introdotto progressivamente nella sua stessa opera, e che aveva trovato nella tetralogia di Zuckerman – con il suo raffinato intarsio tra fiction e autobiografia –, nella furibonda esuberanza de Il teatro di Sabbath e nel folle gioco di doppi e sosia su cui è incentrato Operazione Shylock i suoi momenti più intensi e convincenti.

In Pastorale si respira invece un curioso sentore di classicità. Il romanzo è prima di tutto la storia di una famiglia ebreo-americana e di un predestinato: Seymour Levov, detto lo Svedese, un uomo che dovrebbe aver avuto tutto, dalla vita. Alto, biondo, occhi azzurri: un aspetto fisico che sembra negare la sua stessa origine ebraica e aprirgli la via di una facile integrazione. Atleta impareggiabile, eroe del suo liceo, lo Svedese eredita la fabbrica di guanti del padre e si sposa con la reginetta del New Jersey, cattolica e irlandese.

UNA STORIA DI SUCCESSO che va però a urtare contro un evento destinato a trasformare la pastorale americana del titolo in tragedia: l’attentato a un ufficio postale in cui un uomo perde la vita e di cui è responsabile la figlia dello Svedese: Merry, una ragazza complessata, indocile e ribelle, pronta a contestare alla radice il sogno integrazionista e democratico che il padre era ormai a un passo dal consolidare.

Il conflitto generazionale è l’unica chiave di lettura degli eventi: almeno dalla prospettiva di Seymour, che mostra ben poco interesse per le ragioni e i torti della protesta anti-Vietnam cui Merry aderisce, e legge l’attentato come l’interruzione di una catena virtuosa, «la perdita della figlia, la quarta generazione americana… La figlia che lo sbalza dalla tanto desiderata pastorale americana e lo proietta in tutto ciò che è la sua antitesi e il suo nemico, nel furore, nella violenza e nella disperazione della contro pastorale: nell’innata rabbia cieca dell’America.»

Ora, però, c’è un punto che spesso, e proprio per l’intensità, la forza e la classicità della saga dei Levov, tende a sfuggire, quando si parla di Pastorale americana: anche in questo caso, il romanzo ha un narratore interno, e non uno qualsiasi, bensì quello stesso Nathan Zuckerman che Roth aveva messo al centro di alcuni tra i suoi libri più feroci e sulfurei, come Zuckerman scatenato e La lezione di anatomia. Compagno di scuola di Jerry Levov, il fratello minore di Seymour, Nathan è vissuto nel mito dello Svedese, ma è anche terrorizzato dalla sua perfezione, dall’apparente assenza, nell’eroe, di quella «macchia umana» (per citare il titolo del successivo romanzo di Roth) senza la quale non si dà progressione narrativa, tanto meno tragedia.

Per arrivare a raccontare «la tragedia dell’uomo impreparato alla tragedia: cioè la tragedia di tutti», Zuckerman è allora costretto a elaborare le poche informazioni raccolte sul conto dello Svedese e trasformarle in una «cronaca realistica», rinunciando a qualunque slancio metanarrativo. La soggettività dello Svedese, inventata e creata a partire dall’illeggibilità della sua perfezione, si apre al caos della storia, subisce la rivolta generazionale, vede la sua pastorale trasformarsi in contro pastorale.

QUELLA DI ROTH si configura dunque come una scelta deliberata: a partire da Pastorale (e proseguendo con La macchia umana e Ho sposato un comunista) si compie un’opera di sistematica ricodificazione dei temi già affrontati nelle opere precedenti, nella quale all’esplorazione diretta della scena contemporanea si sovrappone la rievocazione nostalgica di un tempo e di un sistema di valori e sogni ormai irrecuperabili. Di questa ricodificazione, che ha peraltro sancito in via definitiva l’ingresso di Roth nell’Olimpo dei classici, è testimonianza una serie di romanzi strutturalmente perfetti e sorprendentemente armoniosi, spesso imperniati su una qualche forma di conflitto generazionale e lontani dalla frenesia e dalla furibonda inventiva delle opere precedenti: serie che trova nelle due ultime opere, Indignazione e Nemesi, e nel silenzio che le ha seguite fino alla morte dell’autore, il proprio naturale compimento.