Fra le motivazioni del Nobel ricevuto da Peter Handke nel 2019, figura quell’«ingenuità linguistica» grazie alla quale lo scrittore austriaco è stato in grado di «esplorare il perimetro e la specificità dell’esperienza umana». Presupposti che si concretano alla perfezione in La mia giornata nell’altra terra Una storia di demoni (ottima traduzione italiana di Alesssandra Iadicicco, Guanda, pp. 96, € 14,00). «Ingenuità linguistica», «perimetro» e «specificità dell’esperienza umana» costituiscono, infatti, i pilastri che sorreggono l’impianto narrativo di questa Dämonengeschichte, come recita il sottotitolo del testo.

È proprio in questa indicazione, una «storia di demoni», che va cercata la chiave interpretativa di questa breve opera di ispirazione biografica, in cui lo scrittore ricorda il periodo della propria giovinezza, durante la quale lavorava come frutticultore in un paese di cui era considerato, con ogni evidenza, una maledizione. L’«incorreggibile!», il «miserabile!», il «parto dell’inferno!», «il brutto!», il «sobillatore!», il «seme bacato!»: così l’io narrante è apostrofato nel villaggio, principalmente perché si accampa in un cimitero e se ne sta sempre in disparte, parlando da solo oppure insultando, minacciando e generando nel paese il terrore di «una carneficina».

Se, agli occhi della sorella del narratore questo comportamento sembra essere un gioco, al lettore che ricordi le motivazioni del Nobel e conosca l’opera di Handke sarà chiara l’associazione con i giochi linguistici à la Wittgenstein, frutto di un’«ingenuità» che diventa terrore dinanzi agli occhi della popolazione del villaggio, incapace di comprendere. Ciò che Handke racconta, quindi, è la storia del ‘demone’ linguistico dal quale è stato posseduto, e che gli ha impedito per un periodo di tempo di capire cosa stesse accadendo nel suo «piccolo paese».

Strutturata in due parti e un epilogo, in cui l’autore rievoca l’incontro e il matrimonio con la moglie, la narrazione si basa su quanto il protagonista sa di quel tempo attraverso il «sentito dire» o i ricordi della sorella. Almeno fino all’inizio della seconda parte dell’opera, in cui «sulla riva di un lago, con l’altra terra sulla riva opposta», il giovane torna in sé grazie a uno dei pescatori che, mentre tirano fuori dall’acqua una barca, formano un semicerchio dinanzi a lui e alla sorella. Al centro, uno strano personaggio, che Handke chiama «il Buon Spettatore», capace di guardare e ascoltare senza aspettarsi «né una lode né una ricompensa». Grazie al suo sguardo, «in un attimo» epifanico e persino salvifico, il «Buon Spettatore» libera il giovane dal demone che lo possiede, restituendolo al «mondo, al caro pianeta, alla madre terra».

Chiaramente ispirata ai Vangeli e intrisa di quella religiosità tutta austriaca – che avrebbe portato Handke a individuare nel Peso del mondo il carattere eucaristico della poesia e ad attribuire alla scrittura del romanzo Ripetizione una valenza salvifica – questa scena coincide con il punto di svolta della narrazione: il giovane veggente, «ritornato alla vita», accetta il compito che il «Buon Spettatore» gli assegna, ovvero raggiungere «la terra di là del lago, l’antica regione della Decapoli» e lì raccontare quanto gli è accaduto.

Giunto all’altra sponda e liberato dalle proprie ossessioni, il narratore avvertirà un profondo senso di gioia e troverà una «terra ignota», in cui festeggiare diverse ricorrenze, compiendo incontri simbolici e incrociando persone che comprenderanno come i suoi giochi linguistici e la sua «glossolalia» siano già tentativi di guardare con occhi nuovi e raccontare, grazie ad epifanici attimi, quel «mondo buono celato e sempre celatosi» che Handke avrebbe magistralmente descritto in Lento ritorno a casa. Là, il protagonista, Sorger, cercava un percorso nella natura per guarire il mondo attraverso la parola. Allo stesso modo, il giovane protagonista di La mia giornata nell’altra terra resterà metaforicamente sospeso fra i due paesi divisi dal lago, individuando nella sperimentazione linguistica una possibilità di vivere fra i due mondi del visibile e dell’invisibile e cercando grazie alla propria «ingenuità linguistica» la parola capace di uscire dall’impasse.

Il breve romanzo evoca, dunque, la giovinezza di quel Peter Handke «cercatore di soglie» che – come testimoniano anche gli aforismi, le annotazioni e i disegni dei diari dell’autore, raccolti sotto il titolo Di notte, davanti alla parete con l’ombra degli alberi Segni e presagi dalla periferia 2007-2015 (Settecolori, pp. 416, € 26,00, anch’esso magistralmente tradotto e curato di Alessandra Iadicicco) – si è avventurato grazie ai personaggi e alla sperimentazione linguistica in luoghi fisici e allegorici, di cui «l’altra terra» è emblematica espressione e nei quali il tempo e lo spazio sembrano sospesi.