La peste suina africana (Psa) non è più un problema che riguarda solo i cinghiali selvatici. A partire dall’agosto scorso la Psa si è insediata in Lombardia tra gli allevamenti di suini della provincia di Pavia, creando un livello di allarme senza precedenti. Perché il territorio lombardo con i suoi 2700 allevamenti e 4,1 milioni di suini allevati copre la metà della produzione italiana. In particolare, nelle province di Brescia, Mantova e Cremona si allevano più di tre milioni di suini, una delle più alte concentrazioni a livello mondiale, rappresentando il principale serbatoio per i salumifici italiani.

CONTENERE IL VIRUS NELL’AREA PAVESE e impedire che possa raggiungere le altre province lombarde è diventato l’obiettivo principale. Lo strumento utilizzato è quello dell’abbattimento degli animali, malati e sani, presenti nelle aree di contagio. Secondo i dati forniti dalle strutture sanitarie della Lombardia, sono stati 46.500 i maiali abbattuti per controllare i nove focolai presenti negli allevamenti del pavese. I massicci abbattimenti e le misure di restrizione imposte dall’Ue e dalla regione Lombardia potrebbero aver stabilizzato la situazione, visto che dopo il 28 settembre non sono stati segnalati nuovi focolai. Molto dipende da come sono attuate le misure di biosicurezza. Attualmente, gran parte della provincia di Pavia è in zona rossa, in cui vige il divieto di movimentazione degli animali sia in entrata che in uscita.

LA SCOPERTA A FINE OTTOBRE DI 5 CINGHIALI morti a Torre d’Isola, nel Parco del Ticino, ha portato a varare misure di restrizione anche in 13 comuni della zona a sud di Milano, fino ad Abbiategrasso. Prima di arrivare tra i suini della provincia di Pavia, la Psa ha proceduto per salti. Dopo il primo caso di positività riscontrato nel gennaio 2022 in un cinghiale trovato morto nella provincia di Alessandria, altri casi di contagio sono stati scoperti tra i cinghiali che vivono al confine tra Piemonte e Liguria e nelle province di Genova e Savona. Nel maggio 2022 il virus viene scoperto nel Lazio in alcuni cinghiali della riserva naturale dell’Insugherata e in un piccolo branco di suini in provincia di Roma.

UN ANNO DOPO, NEL MAGGIO 2023, LA MALATTIA viene riscontrata in alcuni cinghiali presenti nei boschi del salernitano e in gruppo di maiali allo stato semibrado in provincia di Reggio Calabria. Una modalità di propagazione che non sempre è riconducibile al passaggio diretto da un cinghiale all’altro. Il virus in circolazione, che non si trasmette alla specie umana, è geneticamente diverso da quello presente in Sardegna dalla fine degli anni ’70 e mai arrivato nell’Italia continentale, mentre il suo profilo genetico è simile a quello che si è diffuso in alcuni paesi europei a partire dal 2014. Come il virus sia arrivato nell’alessandrino rimane un mistero, visto che il confine slavo, da cui si temeva l’ingresso, dista 500 chilometri.

I COMPORTAMENTI UMANI (controlli nella macellazione e nel commercio delle carni, gestione dei rifiuti) possono aver favorito la diffusione del virus. Maiali domestici e cinghiali selvatici appartengono alla stessa famiglia e hanno in comune un lungo percorso evolutivo, ma ora condividono solamente il rischio di contagio con uno dei virus più letali presenti nel mondo animale. Il maiale è sempre più invisibile, rinchiuso in fabbriche di carne, mentre il cinghiale si sta espandendo nelle aree rurali e montane interessate da fenomeni di spopolamento umano. Ora che il virus ha raggiunto gli allevamenti, il problema della gestione dei cinghiali selvatici viene riproposto con forza, anche per i danni alle produzioni agricole, l’aumentata presenza nelle aree urbane, il rischio di incidenti stradali. Secondo l’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), sul territorio italiano è presente una popolazione di circa 1,5 milioni di cinghiali. La Coldiretti, invece, stima una presenza di 2,3 milioni.

IL COMMISSARIO STRAORDINARIO ALLA PESTE SUINA, nominato a marzo, ha varato un piano che prevede il «prelievo» di 612 mila cinghiali in un anno, per il 75% attraverso l’attività venatoria. I «gruppi di fuoco» sono attivi nelle diverse regioni, in particolare in Piemonte, Liguria, Lombardia, dove si è registrato il maggior numero di casi di contagio tra i cinghiali. Ai 600 mila cacciatori italiani è stato assegnato il ruolo di «bioregolatori». Ma la caccia collettiva con l’impiego dei cani nelle aree di contagio ha come conseguenza la dispersione sul territorio degli animali, con lo spostamento verso zone non ancora interessati dall’epidemia.

È LA SITUAZIONE CHE SI È DETERMINATA, secondo Legambiente, nell’Oltrepò pavese: le attività di abbattimento hanno ridotto la popolazione di cinghiali, ma hanno favorito la loro dispersione verso le zone di pianura e le valli del piacentino, col rischio di far aumentare la velocità di propagazione del virus. L’Ispra ha messo più volte in evidenza che la gestione della specie in questi anni non è stata adeguata e l’attività venatoria per come è stata condotta non ha portato a un reale contenimento. In una visione complessiva della gestione delle popolazioni di cinghiali, la caccia non si è dimostrata la soluzione ottimale.

SECONDO L’ISPRA, NEL PERIODO 2015-2021 sono stati abbattuti in media 300 mila cinghiali all’anno, di cui 260 mila attraverso la caccia collettiva e 40 mila mediante cattura, senza riuscire a ridurre in misura adeguata la capacità riproduttiva della specie. Il problema è che è mancato totalmente un piano di contenimento basato sulla riduzione della fertilità, con l’uso di esche che contengono farmaci in grado di ridurre le nascite, un metodo meno cruento e meno costoso degli abbattimenti. Inoltre, è mancata una gestione adeguata degli spazi verdi urbani e periurbani per ridurre il rischio di contatto con i cinghiali. La cattiva gestione dei rifiuti e le misure insufficienti per impedire l’accesso al cibo hanno favorito la presenza dei cinghiali in prossimità di numerose aree urbane. Il cinghiale è un animale onnivoro con grandi capacità di adattamento e la sua gestione deve andare di pari passo con quella del territorio. In questi anni l’Efsa (Autorità per la sicurezza alimentare) ha più volte messo in evidenza le carenze nel controllo della Psa e la mancata attuazione delle misure di biosicurezza in molti allevamenti suini.

ATTUALMENTE SONO OTTO I PAESI DELL’UNIONE EUROPEA in cui si registra la presenza di focolai tra i maiali (Italia, Germania, Polonia, Bulgaria, Lettonia, Lituania, Slovacchia, Romania), mentre sono 11 i paesi in cui è presente il contagio tra i cinghiali. La Romania da anni è il paese più colpito. Al di fuori dei confini della Ue, l’epidemia è diffusa in Serbia, Macedonia del Nord, Moldavia e Ucraina. C’è da dire che la situazione è meno drammatica rispetto al 2019, quando si manifestò la più vasta epidemia nella storia del mondo animale, col coinvolgimento di decine di migliaia allevamenti di suini nei paesi europei ed asiatici. In Cina furono 200 milioni i maiali abbattuti nel disperato tentativo di arginare l’epidemia. La peste suina africana ha oramai assunto un carattere endemico e l’elevata concentrazione degli animali crea le condizioni favorevoli alla diffusione del virus, destinato a ripresentarsi ciclicamente nonostante le misure di biosicurezza che si cerca di intraprendere. Ma c’è anche una elevata frequenza di altre malattie per la condizione di costante malessere che caratterizza la vita degli animali allevati. Il nostro sistema agroalimentare, basato sullo sfruttamento animale, ha dei costi insopportabili da un punto di vista ambientale e sanitario.