Peschiamo umani
Emergenza migranti, seconda missione per la nave Iuventa Il vecchio peschereccio con giovane equipaggio della Jugend rettet, una ong tedesca, è tornato a salvare vite umane di fronte alla costa libica. Una sfida in mare aperto all’impotenza politica dell’Europa
Nelle settimane scorse un discreto fervore animava il cantiere nautico Faldis sull’isola della Giudecca. Chi fosse passato per il lato sud della laguna di Venezia, avrebbe potuto osservare un vecchio peschereccio, battente bandiera olandese, trasformarsi sotto il lavoro tenace e meticoloso di giovani uomini e giovani donne, tra i 25 e i trent’anni. La maggior parte di loro sono tedeschi, così come tedesca è Jugend rettet, la sigla dell’iniziativa che c’è dietro la nave, che ora porta il nome benaugurante di Iuventa. La sua missione è di trarre in salvo quante più vite umane possibili dal mare.
DOPO IL RESTAURO E IL VIAGGIO che l’ha portata a Malta, la Iuventa, che è giunta alla sua seconda stagione di attività nel Mediterraneo, dalla mattina del 12 marzo si è aggiunta – e ci resterà sino a fine ottobre – alla rete delle navi di diverse ong che operano davanti alle coste libiche.
Se le navi militari della missione europea Eunavfor Med (operazione Sophia) che ha sostituito la fallimentare operazione Triton pattugliano quel tratto di mare, il loro spazio d’azione è però ristretto alle acque internazionali. Ma tra la costa e il limite delle 24 miglia si estende una vasta distesa d’acqua. Le barche e i gommoni di chi cerca di raggiungere l’Europa devono attraversarla per trovare navi più solide che li accolgano. È un’estensione apparentemente innocua a chi la osservi sulle carte senza avere sufficiente esperienza di mare. Basta però per portarsi via più vite umane, ancora più di quante non se ne sia già portata l’epoca delle migrazioni.
L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni con sede a Ginevra stima che solo nei primi due mesi del 2017 i morti accertati siano stati 512, cioè 105 in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. La Iuventa potrà operare a 12 miglia dalla costa, nella cosiddetta «zona contigua» alle acque territoriali libiche, fornendo più da vicino supporto e assistenza alle barche che si staccano dai porti libici.
ALLE 13 PERSONE che compongono l’equipaggio, compresi un dottore e un infermiere, si aggiungono regolarmente uno o due giornalisti. Dalle parole del capitano della Iuventa Kai, emerge come la necessità di trarre in salvo quante più vite possibili si accompagni all’intenzione di offrire un’informazione diffusa soprattutto in un paese come la Germania, la cui stampa dà spesso scarso risalto alle vicende dei migranti. Raramente i giornali o le televisioni del Nord Europa in genere sono in grado di cogliere o di suscitare l’attenzione del proprio pubblico per i naufragi che hanno cambiato una volta per tutte la natura del Mediterraneo. L’impressionante serialità di ciò che capita a migliaia di chilometri di distanza, sembra facilitare l’opera di dimenticanza di tutto quanto – barche o vite – si inabissa sul fondo del mare.
Nella scelta di Jugend rettet c’è un chiaro orientamento alla dimensione pratica: si tratta di salvare vite.
D’ALTRO LATO QUESTA MISSIONE si accompagna a una politica dell’informazione e della narrazione che pone al suo centro un fatto per nulla scontato, per cui il Mediterraneo è una questione europea. A significare la necessità di un apporto di ciascuno a questa storia che, in un modo o nell’altro, rappresenta una sfida epocale per l’Europa. Di un’Europa che sinora non ha trovato misure comuni per una politica efficace nei confronti dei migranti e di tutti coloro che richiedono asilo. Di un’Europa scandalosamente incapace di aprire un vero confronto politico con la sfida che le migrazioni pongono al nostro tempo.
LA DOMANDA non solo su cosa sia l’Europa oggi, ma anche a quali compiti è in grado di rapportarsi, passa anche per il coraggio e l’ostinazione di questo gruppo di giovani, che in maniera del tutto volontaria si è imbarcata sulla Iuventa: «Come giovane generazione ci opponiamo alla mancanza di agire da parte dell’Unione europea rispetto alle morti nel Mediterraneo. Solo con un progetto concreto l’”impotenza politica” può venir superata».
Cosa significa essere europei i partecipanti al progetto hanno deciso di deciderlo da sé. Con la loro iniziativa indipendente e finanziata dal basso, con le per lo più modeste donazioni del crowfunding, hanno deciso, ciascuna e ciascuno, di non acquietarsi nell’alibi per cui spetterebbe ad altri – stati, partiti, nazioni, entità sovranazionali come l’Unione europea – risolvere il problema. Si sono decisi per una libertà che viene da un incontro con la storia del nostro tempo e con ciò che ne fa qualcosa di singolare e di unico.
COME DICE KAI, tutti si sono preparati «con rispetto e timore» all’incontro con il mare e con coloro che lo attraversano. Vengono da esperienze diverse: alcuni dall’antifascismo militante, altri sono impegnati nel sociale. A bordo ci sono come volontari anche alcuni ragazzi che hanno imparato la navigazione arruolati nella marina militare tedesca. Il personale medico e infermieristico viene fornito con il supporto di Rainbow for Africa.
Non è casuale che un gruppo di persone che provengono da differenti esperienze trovi in una prassi politica il proprio legame essenziale. Eppure, al di là di ogni calcolo, questa opzione custodisce al suo interno una nuova definizione di politica, la cui esigenza emerge oggi da più parti: una politica dell’esperienza che parte non più da una proposta di tipo teorico o dottrinale, ma che si costituisce come politica della vita e, più precisamente, politica delle nude vite, della loro nudità senza nome.
QUI VALE L’ANTICA LEGGE del mare per cui il capitano di una nave ha l’obbligo di prestare soccorso a ciascun navigante che si trovi in pericolo di vita. Questa legge è posta al centro dell’azione della Iuventa e di tutta la rete che ne supporta le operazioni: ogni uomo in difficoltà deve essere tratto in salvo. Sembrerebbe un’ovvietà. Eppure basta ricordare che, in palese contraddizione con il diritto consuetudinario e con gli accordi internazionali, un obbrobrio legislativo italiano, conosciuto con il nome di Legge Bossi-Fini, dunque una legge di un paese sovrano facente parte dell’Unione europea e impegnato da sempre nelle operazioni internazionali nel Mediterraneo, abbia permesso, non molti anni fa, alla magistratura italiana di applicare il reato di favoreggiamento a chi soccorreva i profughi in mare (art. 12, comma 1).
NELLA PRATICA DI SALVATAGGIO della Iuventa, come di altre iniziative indipendenti che operano in soccorso dei migranti, non solo viene ristabilito il primato di una cultura della tutela. Qui viene anche interrotto il circolo vizioso dell’impotenza politica che attende sempre da altri soggetti la messa in opera di un lavoro che riguarda ciascuno di noi. Se una situazione d’emergenza può essere altro dalla giustificazione giuridica delle leggi speciali e della dittatura totalitaria, com’è stata nel fascismo e nel nazismo, resta da applicare questo stesso principio alla terraferma, là dove l’emergenza perdura, dove le domande d’asilo vengono per lo più respinte e i migranti possono essere tranquillamente avviati a una vita in clandestinità, che ne fa la manodopera più apprezzata della malavita e dei suoi affari.
SALVANDOLI DAL NAUFRAGIO, questo peschereccio blu che carica non più pesci, ma vite umane, pone la questione che è la vera e propria posta in gioco del suo impegno: come procederà il destino dei migranti sulla terraferma?
All’inizio di questa domanda sta certamente tutto il potenziale del continente europeo. Al suo orizzonte sta invece la necessità di produrre un salto di qualità della riflessione sulle politiche dell’accoglienza e dell’asilo, superando il timore dei populismi, che oggi pare aver congelato qualsiasi discussione seria sulla vocazione politica dell’Europa.
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