Scorrendo il programma della mostra del Nuovo cinema di Pesaro (17-24 giugno) il focus dedicato al cinema sperimentale argentino curato da Orazio Leogrande appare come il tradizionale legame del festival con i cineasti latinoamericani che ancora viene ricordato per le fondamentali edizioni degli anni ’70, unico momento di incontro tra i vari paesi.

I cortometraggi argentini in programma potrebbero apparire un «rapido» contributo alla conoscenza del nuovo cinema, in realtà è un ricchissimo punto di osservazione di personalità, attività diverse ed esperienze internazionali.

Tecnicamente si tratta di cortometraggi della durata di pochi minuti, cinema sperimentale di grande livello, che ha fatto il giro di musei internazionali, ogni autore dalla personalità ben definita. È interessante notare come nella creazione del «mai visto prima» restino impresse le grandi costanti del nuovo cinema argentino su cui ha lavorato la generazione di cineasti appena precedente, primo tra tutti il grande tema della sparizione, dell’invisibilità di un territorio terra di conquista che ha portato i registi a spostarsi da Buenos Aires a viaggiare verso le province apparentemente «nel mezzo del nulla».

In Ceniza verde Pablo Mazzolo (insegna all’Univesidad Nacional di Quilmes) torna a tempi in cui non esisteva un «territorio argentino», alla ricerca di come ricostruire la cultura Hénia Kamiare nelle Sierras di Cordoba. Si tratta di un lavoro di evocazione, di ricerca «quasi spettrale» come è stata definita poiché nulla è rimasto di una società mai soggiogata dagli Incas finché gli spagnoli ne massacrarono in massa l’esercito. Appare come punto fermo l’inserimento della didascalia che avverte: «Nel 1575 la resistenza guidata dal capo Onga fu vinta dall’esercito spagnolo. A centinaia donne, vecchi, bambini si lanciarono nel vuoto per non finire in schiavitù. Fu il suicidio di massa più grande del territorio oggi conosciuto come Argentina».

Il sole, come intravisto tra le palpebre accecate dai bagliori è sempre lo stesso di allora e anche le nuvole e perfino le piante, così come il profilo del monte che incombe ora oscuro ora verdeggiante, vegetazione nutrito anche dell’immenso olocausto, nelle riprese che indugiano come se volessero cogliere respiri che vengono da lontano.

Il monte si chiamava Charalqueta (il dio della gioia e della felicità) ma da quel momento si chiamò Colchiqui (il dio della tristezza). Non un lavoro di ricerca storica, avverte il regista, ma piuttosto di regia, in particolare di ottiche: si tratta infatti di percepire una realtà scomparsa eppure pulsante, ma tra i due punti fermi della descrizione dell’avvenimento e quello finale di mappe disegnate per indicare l’esatta posizione geografica per poi andare alla ricerca di una realtà palpabile attraverso «diverse emulsioni», gli effetti sulle rocce e sulle piante con differenza di messa a fuoco e movimento manuale, i colori lampeggianti fluorescenti».

Vincitore del «Best short Film» al Bafici, altri suoi film viaggiano lontano, nella riserva naturale dell’Ontario (Fish Point), nel Santuario dei Comechingones (Waterflows) e, viaggio nel tempo, raccolta di notiziari argentini, nel found footage NN, dove lo spettro evocato è quello dei desaparecidos della dittatura («una riflessione sul soggetto umano come anonimato»).

Raccoglie la tradizione poetica del cinema argentino Darse Cuenta (3’, 2008) secondo film dell’angloargentina Jessica Sarah Rinland, in 16mm, con la poesia recitata fuori campo dello psicologo e scrittore Jorge Bucay prima sul vuoto poi su una idea di esterno così come evocano le parole, nel contrasto tra soavità e precipizio, fra ineluttabile, matematica tragedia e umorismo come colpo di coda. Faranno poi la comparsa nei film successivi elementi di ricerca scientifica, musei, giardini, animali, a cominciare da quelli dello zoo di Buenos Aires nel suo progetto Monologo Colectivo, fino ai pipistrelli e all’antropocene di Black Pond dove un antropologo intesse contatti con pipistrelli e falene.

Il vero puro horror è, come il treno a La Ciotat che arriva travolgendo gli spettatori, il tipo che avanza infliggendo coltellate alla pellicola (una disarmante super8) con spargimento di sangue rosso magenta con schizzi ben dosati, colanti e ritmici nel fragore delle urla di dolore meccanico, prodotto dallo scorrere della pellicola: è Quien se atreve a matar el cine? (Chi osa uccidere il cinema?) di Joaquin Aras, classe 1985, che lavora con le sue installazioni sul quotidiano e sui tabù, coniugando filosofia e humour.

Azucena Losana di origine messicana, nel titolo del suo Cangallo y Canning (4’)indica l’incrocio tra due strade immaginarie che quindi non possono mai incrociarsi. Autrice di installazioni e video programmati a Mar Del Plata Mosca, Oberhausen, Praga, Losanna, attivissima e «militante» ha realizzato e programmato la sala di proiezione itinerante «Cinema Cinico», è responsabile del laboratorio di resistenza cinematografica in America latina «Arcoiris super8», alla valorizzazione dei film dell’ambasciata messicana in Argentina e con Carolina Andretti si occupa di un progetto che costruisce proiettori analogici con materiali di scarto.

Appartiene all’ambito poetico anche Reflejo nocturno di Benjamin Ellenberger (2020, 4’38″) micro romanzo ambientato nelle strade di notte, fotogramma dopo fotogramma «con lunghi tempi di esposizione, sviluppato a mano prima dell’alba». Forme geometriche di cancelli, vetrate, scaffali di negozi alternati a lampeggiamenti, dove poi gli interni appena visitati lasciano sprazzi di ricordi, oggetti simbolici rimasti impressi nel ricordo.

Gli scenari urbani sono al centro delle opere di vari artisti come Mario Bocchicchio che con Un Horizonte invisible (2021) attraverso le videochiamate che Henrik dal suo viaggio in Asia fa al suo amico Mario a Buenos Aires, dalla Costanera Sur: è come se si trovassero nello stesso luogo, tanto simili sono le architetture, con le torri di vetro e ferro(«da un lato sono belle, dall’altra orribili»). L’idea romantica del mondo da esplorare, del viaggio verso luoghi incontaminati è finita, un’architettura simile tende a uniformare gli spazi, ma li unifica ancora di più la quantità di plastica e di spazzatura ovunque.

Filmmaker e musicista, formazione filofofica e curatore di cineteche, workshop ed esposizioni internazionali, Ignacio Tamarit (classe ’91) con Pífies! (slang per «errore!») crea un collage da scarti homevideo Super 8 di un passato fatto di vacanze, spiagge, motoscafi, sci nautico, fiori d’ibiscus, in andamento ritmico.

Un diario di viaggio, Denkbilder (2013, 5’05″)) porta Pablo Marín da Buenos Aires a Berlino, immagini di Buenos Aires e animali dello zoo di Berlino (riferimento certo non casuale), lo schermo spesso suddiviso a metà, i lampeggiamenti colpiscono ora uno ora l’altro (quale sarà il ricordo persistente?) come riavvolgendo la memoria anche da immagini del passato remoto e i colori esplodono come risate «argentine».

Si deve a Pablo Marín, cineasta, critico e docente, un incontro tenuto nel 2021 sul cinema sperimentale argentino, i cineasti contemporanei e l’avanguardia degli anni ’70 raccolti attorno all’Istituto Di Tella e al Goethe Institut, a cominciare da Claudio Caldini, Horacio Vallereggio, Juan Villola, Marie-Louise Alemann, Adrian Tubi, Narcisa Hirsch. «Non c’è storia del cinema, ci sono autori» dice Marín, in questo modo nella contemporaneità dello sperimentale spiccano maggiormente alcune differenze, ma solo come sfumatura, come l’impegno politico che non viene meno neanche oggi , la durata dei film di allora (il riferimento era Empire di Wahrol del ’65, con le 8 ore e 15’) rispetto alla sintesi estrema di oggi.

Errata Corrige

L’autore del film Un horizonte invisible si chiama Mario Bocchicchio invece di Marco Bocchicchio, come riportato per un refuso in un passaggio nell’edizione in edicola. Ce ne scusiamo con i lettori e con tutti gli interessati.