Il conto dei morti a Juliaca, nel dipartimento di Puno, non ha fatto che salire. La Defensoría del Pueblo prima ha parlato di 12 vittime, poi di 14 e infine di 17, mentre vi sono ancora feriti in gravi condizioni. Contro i manifestanti che chiedevano la rinuncia della presidente Dina Boluarte, lo scioglimento del Congresso – «que se vayan todos» -, elezioni già quest’anno, un’Assemblea costituente e la liberazione di Castillo, le forze cosiddette di sicurezza hanno fatto fuoco come fosse una guerra. Spesso puntando direttamente alla testa, come ha confermato il direttore dell’ospedale di Puno Jorge Sotomayor.

MAI PIÙ MORTI, aveva garantito la presidente all’inizio dell’anno, quando le vittime erano 28. Ed ecco invece, alla ripresa delle manifestazioni dopo la pausa natalizia, il massacro più grave da quando sono iniziate le proteste lo scorso 7 dicembre. Il ministro del’Interno Víctor Rojas ha anche cercato di giustificare le forze di polizia, parlando di una «turba» decisa a «creare caos nel caos»: «Hanno provocato e non si è potuto controllare». Ha anche fatto suo l’appello di Boluarte «alla riflessione», come se i manifestanti non sapessero riflettere.

Non è stato da meno il primo ministro Alberto Otárola, che ha definito l’ondata di proteste come una prosecuzione del colpo di stato, intendendo per tale, naturalmente, il tentativo incostituzionale di Castillo di sciogliere il congresso (incostituzionale sì, ma condiviso da un intero paese), quando il golpe, quello vero, è sopraggiunto invece subito dopo, con la sua destituzione lampo e la formazione di un governo praticamente dittatoriale.

DIVERSAMENTE da Otárola, il governatore di Puno Richard Hancco si è invece schierato contro la campagna politica e mediatica diretta a ricondurre le proteste a una matrice terrorista (il cosiddetto terruqueo, la pratica, così cara alle destre, di dare del terrorista a chiunque dissenta), decretando tre giorni di lutto in tutto il dipartimento.

Intanto, nel settimo giorno consecutivo di mobilitazione, si registrano blocchi stradali e proteste in diverse parti del paese, e soprattutto a Puno, Arequipa, Cusco e Tacna. E il prossimo passo, hanno annunciato i manifestanti, sarà una marcia verso Lima, una nuova Marcha de los cuatro suyos (in riferimento alle quattro regioni che costituivano il Tahuantinsuyo, l’impero inca), cioè da ogni angolo del Perù, come quella che si era svolta nel 2000 contro Fujimori.
Continua così il braccio di ferro tra i settori mobilitati del popolo peruviano – che non arretrano di un passo rispetto alle loro richieste – e il governo Boluarte, che confida nel fatto che prima o poi i manifestanti si stancheranno di scendere in strada. Un braccio di ferro che si è riflesso anche nella riunione del cosiddetto Accordo nazionale, convocata dal governo per trovare una soluzione alla crisi, ma disertata tanto dalla Conafrep (Coordinadora Nacional de Frentes Regionales) quanto dalla Cgtp (Confederación General de Trabajadores), secondo cui non si può parlare di un accordo di pace mentre «il popolo peruviano è massacrato, torturato e assassinato per il solo fatto di esercitare il suo diritto alla protesta» né ci potrà accordare finché non verranno convocate nuove elezioni e non verrà consultato il popolo su un’Assemblea costituente.

Su questa strada, tuttavia, non mancano le insidie, se è vero che – come ha evidenziato l’idolo della sinistra Héctor Béjar, ministro degli esteri per soli 18 giorni (è stato il primo a cadere sotto gli attacchi della destra) – «un’Assemblea costituente, nelle condizioni attuali, rischierebbe di essere la fotocopia del parlamento».

E MAGARI di peggiorare la già pessima Costituzione attuale, la quale non solo blinda il modello neoliberista (rendendo intoccabili gli investimenti stranieri) ma è anche la radice di quelle tensioni tra esecutivo e legislativo che hanno già provocato la caduta di cinque presidenti in sette anni. Per questo, dice, servirebbe, piuttosto, «un processo costituente, un lavoro di educazione e di diffusione di contenuti a partire dalle comunità rurali e urbane». È quanto sostiene anche la femminista comunitaria Liz Medrano: «Il nostro cammino è la costruzione del potere popolare dal basso, per rifondare il paese»