Percival Everett, la storia senza l’imbroglio
All’inizio del celebre safari raccontato in Verdi colline d’Africa, l’alter ego finzionale di Ernest Hemingway esprime un’opinione destinata a fare scuola: «Tutta la letteratura americana moderna viene da un libro di Mark Twain intitolato Huckleberry Finn». Nel corso degli anni, la centralità del romanzo di Twain è stata ribadita da autori diversissimi, da William Faulkner, Francis Scott Fitzgerald a Langston Hughes e persino da T.S. Eliot, che lo considerava uno di quei capolavori in grado di «purificare il dialetto della tribù». Com’è noto, Twain fu tra i primi a impiegare in modo esteso l’eye dialect, un’ortografia non standard basata sulla pronuncia fonetica, non solo per riprodurre in modo realistico le differenze regionali, di classe e di istruzione tra i bianchi, ma anche per catturare il black speech degli schiavi neri. Così facendo, elevò a prosa letteraria un linguaggio idiosincratico che, secondo Ralph Ellison, ha permesso a molti scrittori afroamericani di trovare la propria voce. Se Richard Wright percepiva la scrittura di Twain come «stranamente familiare», Toni Morrison non esitò a definire Huckleberry Finn un classico «sorprendente e problematico», un’opera capace di perdurare nel tempo e impossibile da accantonare.
Ironia della sorte, proprio le strategie linguistiche che hanno consacrato il romanzo ne hanno anche causato più volte la censura: se nel 1905 fu bandito dalla Brooklyn Public Library per motivi che ora ci appaiono risibili – come l’uso della parola «sweat» (sudore) e dei verbi «to itch» e «to scratch» (prudere e grattarsi) –, in anni più recenti a suscitare polemiche è stata soprattutto la presenza della cosiddetta n-word. Nel 2023 un editore dell’Alabama, NewSouth Books, ha deciso di pubblicare un’edizione del romanzo in cui la parola incriminata è stata sostituita con slave, «schiavo», per non «obbligare i lettori a confrontarsi con centinaia di insulti razziali». Eppure, come sottolineava anche Toni Morrison, il rapporto complesso e ambivalente tra Huck e lo schiavo fuggiasco Jim, plasmato soprattutto dai dialoghi, è il cuore pulsante dell’opera. Forse è proprio questo il motivo che ha spinto lo scrittore statunitense Percival Everett, classe 1956, a rivisitare il capolavoro di Twain dalla prospettiva di Jim nel suo ultimo romanzo, intitolato significativamente James (traduzione di Andrea Silvestri, La Nave di Teseo, pp. 336, € 20,00).
Everett insegna letteratura presso la University of Southern California e ha pubblicato più di trenta libri tra romanzi, racconti e opere poetiche, eppure ha detto in una recente intervista di aver dedicato «tutta la vita» alla stesura di James, con l’intento di esplorare quegli aspetti della narrazione che Twain, per ovvie ragioni, non poteva trattare in modo oggettivo. Già nel 2001, nel suo romanzo Cancellazione – ripubblicato quest’anno da La Nave di Teseo in occasione dell’adattamento cinematografico di Cord Jefferson, American Fiction, vincitore dell’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale – Everett aveva criticato l’ipocrisia di chi propone rappresentazioni distorte e superficiali delle minoranze per mettere a tacere la coscienza e fare cassa. In quel romanzo, che non a caso si apre con una citazione di Twain, Everett denunciava il consumo morboso di narrazioni che sfruttano la cultura afroamericana con la pretesa di raccontare l’«esperienza nera», ma che spesso ricorrono a modelli triti e a un linguaggio volutamente volgare, tradendo così la loro stessa pretesa di autenticità.
In James, Everett sovverte con ironia gli stereotipi linguistici: gli schiavi parlano in dialetto sgrammaticato solo quando i bianchi possono sentirli, ma in realtà sono perfettamente in grado di esprimersi in un inglese corretto. I padroni amano credere nella loro superiorità intellettuale, e per questo, una sera a settimana, gli schiavi si riuniscono in segreto per insegnare ai loro bambini i registri linguistici necessari «per muoversi nel mondo senza correre troppi rischi». Tra le regole più importanti: evitare di sostenere lo sguardo di un bianco, mai parlare per primi e comunque sempre in modo indiretto, evitando di esprimere opinioni che possano rivelare una conoscenza troppo approfondita di qualsiasi argomento. Com’è inevitabile, i passaggi repentini dal black speech a un linguaggio formale – esilaranti in lingua originale – perdono gran parte del loro impatto nella traduzione, ma Andrea Silvestri riesce abilmente a mantenere la discrepanza abbassando di volta in volta il registro linguistico e utilizzando con intelligenza una sorta di eye dialect italiano. Quando James si accorge di alcuni ragazzini bianchi che origliano, passa a raccontare in dialetto una presunta esperienza sovrannaturale: «E una di ‘ste streghe, quella che mi ha preso la berretta, mi ha strascinato fin giù a Niuorlins».
In una scena che la penna graffiante di Everett trasforma in uno shakespeariano play-within-the-play, se non in una stilettata a certi corsi di scrittura creativa, gli schiavi si esercitano in un gioco di ruolo per insegnare ai più giovani come comportarsi nelle diverse circostanze. Per esempio, se vedono un incendio devono urlare per attirare l’attenzione senza rivelare quale sia il pericolo, perché i bianchi «vogliono sempre essere loro a dare un nome alle cose». In questo contesto, gli stereotipi razziali e il linguaggio oggi ritenuto offensivo diventano una performance messa in atto dagli stessi schiavi per ingannare i padroni, simile alla recita corale organizzata dallo schiavo nero Babo in Benito Cereno; nel testo di Melville, pubblicato trent’anni prima del romanzo di Twain, Babo organizza una rivolta e prende il controllo della nave negriera dov’è imprigionato, ma per non destare sospetti nel capitano americano salito a bordo si finge un servitore ossequioso, affezionato al padrone e naturalmente incline all’obbedienza. In modo simile, durante il viaggio in zattera lungo il Mississippi, James teme che in presenza di Huck gli sfuggano discorsi non vagliati dalla sua «coscienza di schiavo», poiché sa bene che «i bianchi si aspettano che parliamo in un certo modo e non deluderli su questo fronte non può che esserci d’aiuto».
Nella rivisitazione di Everett, James diventa il vero motore dell’azione, la mente pensante dietro gli eventi narrati, mentre Huck torna a essere il ragazzino inesperto e ingenuo che ci si aspetterebbe data la sua età e la sua scarsa istruzione. Il James di Everett non solo è in grado di leggere perfettamente, ma sostiene conversazioni immaginarie con Voltaire, Rousseau e Locke sulla schiavitù ed è determinato a riconquistare il controllo sulla propria vita attraverso la scrittura. Quando la zattera va in pezzi e i due sono costretti a separarsi, James è libero dalla presenza ingombrante di Huck, ma al contempo «esposto e vulnerabile alla luce del sole come un libro aperto» e deve tentare di sopravvivere in un mondo ostile. La narrazione sembra avviarsi verso la classica slave narrative, ma Everett ha altro in mente. Del resto, anche Hemingway suggeriva al suo interlocutore di interrompere la lettura di Huckleberry Finn quando i due personaggi si separano: «Quello è il vero finale, il resto è solo un imbroglio».
James avverte quindi l’urgenza di riscrivere la propria storia, correggendo l’«imbroglio» della versione tradizionale. «Con la mia matita, ho scritto me stesso portandomi all’esistenza», afferma all’inizio del capitolo in cui dà il via alla «vera» storia di James. Da questo punto in poi, la narrazione si distacca dalla trama di Twain per mettere in risalto l’assurdità dello schiavismo e dei confini razziali imposti dai bianchi. Prima di arrivare al colpo di scena finale – che il lettore attento intuisce già nella prima parte – il racconto assume toni grotteschi e l’ironia si trasforma in black humor quando James si unisce a un minstrel show itinerante guidato da Daniel Decatur Emmett, figura controversa nota per aver composto diverse canzoni popolari razziste, tra cui Dixie, divenuto una sorta di inno della Confederazione. In questo contesto, la linea del colore sfuma fino a sfociare nell’assurdo: «Dieci bianchi in blackface, un nero che passava per bianco dipinto di nero e io, un nero dalla pelle chiara dipinto di nero in modo tale da sembrare un bianco che cercava di farsi passare per nero». Quanto alle canzoni le cui parole raccontano di «negri che cercano di tornare alla piantagione perché ci manca il padrone», il primo istinto di James sarebbe di bruciarle, proprio come chi oggi vorrebbe censurare quelle opere ritenute offensive. Tuttavia, è consapevole che ciò non farebbe certo sparire i loro effetti nefasti, quindi decide di inserire i testi all’inizio del romanzo, perché, al contrario di ciò che pensano i sostenitori della cancel culture, è «meglio sapere che esistono». La narrazione che segue serve anche, appunto, a decostruirle.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento