Mes, il nodo che chiama in causa la natura dell’Europa
Commenti Quando Giorgia Meloni dice che «non ha senso ratificare la riforma del Mes se non sai cosa prevede il nuovo patto di stabilità e crescita» è totalmente fuori strada. Il problema sta a Francoforte, più che a Bruxelles
Commenti Quando Giorgia Meloni dice che «non ha senso ratificare la riforma del Mes se non sai cosa prevede il nuovo patto di stabilità e crescita» è totalmente fuori strada. Il problema sta a Francoforte, più che a Bruxelles
Non c’è dubbio che per la Meloni il Mes costituisca un appiglio per dimostrare fedeltà ai precetti del suo improbabile sovranismo (la subalternità agli Usa rispetto alla guerra in Ucraina l’ha ridotto a simulacro), forse anche un’arma di ricatto nelle varie partite aperte in Europa (Pnrr, Patto di stabilità). Tanto che il suo rifiuto di ratificarne l’ultima versione non si accompagna, come dovrebbe, ad una critica di fondo, pubblica e coraggiosa, dei meccanismi che sovrintendono al funzionamento dell’Unione monetaria.
L’Europa è l’unico luogo al mondo dove opera una banca centrale per venti paesi diversi, con le loro diverse caratteristiche politiche ed economiche, con diversi – e a volte confliggenti – interessi economici e commerciali su scala interna ed internazionale. Non crescono ed esportano tutti allo stesso modo, c’è chi ha un debito stratosferico e chi no, perfino l’inflazione attualmente li divide.
La banca centrale, in questo quadro, bada ai tassi d’interesse, alla stabilità dei prezzi (ci prova), alla solidità del sistema bancario. Tutt’al più, quando la situazione è eccezionale (l’ultima crisi finanziaria globale, la pandemia), si cimenta in quelle che in gergo vengono chiamate «politiche monetarie non convenzionali», consistenti per lo più nell’immissione di maggiore liquidità nel sistema (settore bancario).
La regola aurea, insomma, è quella di tenersi alla larga da stati e governi. Divieto assoluto di acquistare direttamente titoli di stato dei paesi membri, ovvero di concedere ad essi «scoperti di conto» o «facilitazioni creditizie». In Europa è un’eresia parlare di monetizzazione dei deficit pubblici (lo stato copre il proprio disavanzo di bilancio vendendo alla banca centrale i propri titoli, che a sua volta crea nuova moneta per acquistarli), come di cancellazione di quote di debito in mano alla Bce (i titoli acquistati dalle banche nazionali nell’ambito del quantitative easing).
È il mercato che decide per gli stati. Se per un motivo qualsiasi un Paese membro dovesse avere difficoltà a finanziarsi attraverso il collocamento dei propri titoli di stato, la banca centrale alzerebbe semplicemente le braccia. Per questo è stato istituito il Fondo Salva Stati, un’organizzazione finanziaria sul modello dell’FMI, che agli stati si rapporta come una banca commerciale si rapporta ad una impresa privata o ad un singolo cittadino. Soldi dietro precise garanzie, a determinate condizioni. Li chiamano «programmi di aggiustamento macroeconomico», ma è un modo dolce per parlare di tagli alla spesa sociale e di sfrenate politiche di privatizzazioni/liberalizzazioni. Ne sanno qualcosa Grecia, Spagna, Portogallo, Cipro, Irlanda. Conti risanati, società devastate.
È il principio che non va. Per quanto l’indipendenza delle banche centrali sia dichiarata ufficialmente in tutti i paesi del mondo, non esistono paesi al mondo con un certo grado di sviluppo dove vige l’assoluta impermeabilità della banca centrale alle decisioni della politica. La Fed è «indipendente», ma risponde anche al Congresso ed è di fatto soggetta all’influenza del Presidente degli Stati Uniti.
Quel che più conta, nondimeno, è che la Fed è per il governo Usa un prestatore di ultima istanza. In caso di necessità, può finanziare direttamente il governo. Senza condizioni. Come Bank of England e Bank of Japan, o la Banca Popolare Cinese. Se la Russia, a seguito delle sanzioni comminatele dall’Occidente, si fosse trovata nella condizione dei paesi europei con la Bce, sarebbe già fallita. Il problema, quindi, è molto più strutturale. Chiama in causa l’architettura dell’Unione. Della quale, con la riforma dell’art.136 del Trattato sul funzionamento UE (TFUE), il Mes è diventato un altro «pilastro».
Una sorta di costituzionalizzazione della supremazia della finanza sulla politica, i governi, la democrazia.
Ma non sembra proprio che il dibattito nel Paese sia all’altezza del problema. Come su altre questioni, prevalgono logiche di schieramento interno, il solito conformismo ideologico verso le decisioni assunte dalle strutture europee, al quale molto spesso fa da contraltare un dissenso senza costrutto e di maniera. Quando Giorgia Meloni dice che «non ha senso ratificare la riforma del Mes se non sai cosa prevede il nuovo patto di stabilità e crescita» è totalmente fuori strada. Il problema sta a Francoforte, più che a Bruxelles.
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